IL TOUR DEL 1937

(liberamente tratto da “Uomini in bicicletta” di Dino Pieri; si ringrazia sentitamente l’Autore)

Dopo i buoni risultati ottenuti al Giro, nel 1937 Vicini si vide convocato in Toscana per gli allenamenti collegiali riservati ai probabili partecipanti al Tour. L’esito positivo degli allenamenti fece sì che Vicini venisse incluso nella squadra nazionale guidata da Gino Bartali.

La formazione della squadra, comunicata via radio, portò il tripudio a Cesena; i sostenitori di “Gaibéra” superavano quanto a entusiasmo lo stesso Mario che, pur orgoglioso di essere stato scelto a far parte della rappresentativa italiana, non si nascondeva tuttavia le limitazioni che ciò avrebbe comportato. Tutti i componenti della squadra dovevano considerarsi al servizio di Bartali, l’uomo di punta, vincitore degli ultimi due Giri d’Italia, la qual cosa significava stare nei ranghi, con pochissima libertà individuale. In quanto ad autonomia, se la passavano senza dubbio meglio gli isolati che, pur dovendo contare esclusivamente sulle proprie forze, erano però liberi di condurre la corsa a loro piacimento. Dopo una breve riflessione, la decisione fu presa e Vicini rinunciò a far parte della squadra per correrre da isolato. Nei pochi giorni che restavano prima della partenza Vicini dovette procurarsi tutto l’occorrente per il Tour. Quattrini non ce n’erano; Mario allora si recò da una persona benestante di sua conoscenza e, offrendole in pegno due medaglie d’oro vinte da dilettante, chiese un prestito. Era umiliante per un temperamento fiero come quello di Vicini dover mendicare denaro, tanto più che si vide negare il prestito. Non restava altro che vendere le medaglie, soluzione dolorosa ma indispensabile che gli fruttò 500 lire; a corredo acquistato ne restavano 74 che si volatilizzarono durante il viaggio verso la Francia. Alla Gare du Lyon a Mario rimanevano pochi spiccioli con cui acquistò due cartoline coi rispettivi francobolli per mandare un saluto a casa. Ora era veramente solo; in un paese dove si parlava una lingua sconosciuta, tra gli atleti ben equipaggiati delle squadre nazionali, dovette provare un attimo di smarrimento. Forse pensò di essersi imbarcato in un’impresa superiore alle proprie forze.

Il Tour del 1937, il trentunesimo della serie (4.408 chilometri distribuiti in 31 fra tappe e frazioni di tappa dal 30 giugno al 25 luglio, con sei giornate di riposo), si presentava, per quanto riguarda la partecipazione, sotto i più promettenti auspici. Nove nazioni avevano accolto l’appello; l’Italia, il Belgio, la Germania e la Francia erano rappresentate da squadre di dieci uomini ciascuna; Spagna, Olanda, Lussemburgo e Svizzera da sei uomini; la Gran Bretagna, al debutto nel Tour, da tre corridori. Trenta individuali, tra cui quattro italiani e quattro belgi, completavano l’allineamento di un centinaio di concorrenti. Il regolamento era una vera e propria arma nelle sue mani di direttore di corsa. Era ammesso il cambio di velocità ma il direttore della corsa poteva abolirlo; erano previste tappe multiple con frazioni in linea e a cronometro ma il direttore poteva sopprimerle; alcune tappe a cronometro per squadre erano già predisposte ma l’onnipotente direttore poteva mutarle in tappe in linea. Si permetteva ad un direttore di gara di modificare il regolamento a competizione iniziata. La Francia puntava su Georges Speicher, primo nel 1933, il Belgio su Silvère Maès vincitore dell’ultima edizione; godevano di buone probabilità il tedesco Arrigo Bautz e lo svizzero Leo Amberg; la squadra italiana, come si è visto, era imperniata su Bartali. Nella prima tappa, Parigi-Lilla (258 km), Vicini fece la conoscenza con il pavé, reso ancor più insidioso dalla pioggia; dovette fermarsi per diminuire la pressione dei tubolari, poi forò perdendo altro tempo prezioso. Si classificò 45°.

Violenti scrosci di pioggia e gelide raffiche di vento contrastarono la Lilla-Charleville (192 km). Vicini giunse a circa 1’30, mentre la squadra italiana aveva perduto Servadei, caduto sul pavé, e Valetti per indisposizione. La stampa metteva in evidenza la buona prova di Vicini, 34° in classifica, che aveva fatto parte di un plotoncino di fuggitivi poi riassorbito dal gruppo: “Vicini corre con la sveltezza, il brio e l’elasticità di un atleta che sa il fatto suo. Di tutti gli italiani novellini, il rosso corridore romagnolo è quello che meglio e più presto si è intonato al clima, alle strade e al sistema di correre che è proprio del Giro di Francia. È davvero un peccato non averlo in squadra, il corridore dalla testa a birillo e dalle gambe di fenicottero, che quest’oggi è sempre stato presente là dove la lotta maggiormente ferveva” (“La Gazzetta dello Sport”, 2 luglio 1937).

Dopo due giornate di cielo plumbeo sulle pIaghe del Nord si corre la Charleville-Metz, una sgroppata di 161 chilometri lungo un percorso che è tutto un’altalena tra boschi e praterie. Non appena dato il segnale di partenza, una maglia grigia, cerchiata di verde, prende il largo: è Mario che fugge pancia a terra. Sul gioco delle rincorse e dei ricongiungimenti si forma una pattuglia di 12 corridori che nell’ultima fase della tappa si assottiglia ulteriormente. C’è odore di traguardo; Vicini agguanta chi cerca di evadere finché il colpo riesce all’italiano Generati che taglia il traguardo con una manciata di secondi sui compagni di fuga. Mario, giunto 9°, passa al 23° posto della classifica, riducendo di oltre 7′ il distacco da Bartali, Speicher, Maès. Nella “Gazzetta” aumenta lo spazio dedicato a “quel matto di Vicini”: “L’impresa di Generati non oscura l’impresa di Vicini. L’individuale italiano, infatti, è una delle figure dominanti della tappa. È stato lui che in partenza ha dato fuoco alle polveri, è stato lui che lungo il percorso ha impresso alla cadenza del gruppetto fuggitivo il mordente della vivacità e della risolutezza. Volete tutto Vicini in una sola battuta? Dopo aver fatto la spola un paio di volte tra il plotone pletorico che insegue sonnacchioso e la pattuglia elettrica che scappa, ci affianchiamo a Mario che è in terza o quarta posizione. È l’unico della tompagnia che sta a capo scoperto. Ha i capelli rossi e ci tiene. Dialogo. – Vicini, come va? – Vicini gira la testa e ci guarda. Il sudore che gli cola sul viso infiamma ancor di più i puntolini rossi della sua pelle tutta piena di efelidi. Fa un gesto, a mano destra spalancata, verso quelli di testa e dice: – Non tirano, questi vagabondi! – Guardiamo il tachimetro. Si va a più di quaranta e lui li chiama vagabondi. È una frase comica nella sua assurdità, ma rivela quello che ha nelle gambe il gagliardo e spassoso corridore romagnolo: dell’acciaio fuso. Ecco quello che ha. Non basta. È stato Vicini il corridore che nelle vicinanze del traguardo ha sventato i tentativi di fuga di un paio di stranieri, agevolando così lo scatto decisivo di Generati. Bravo e buon Vicini, hai il diritto di dividere col vincitore l’alloro della tappa. Generati l’ha vinta, Vicini l’ha preparata”. Nella Metz-Belfort (220 km) il caldo comincia a farsi sentire: fugge il tedesco Bautz, al cui inseguimento si pone Vicini con una pattuglia di belgi, svizzeri e francesi. Lungo la salita, quando la battaglia comincia a farsi rovente, Mario fora. Sulle rampe del Ballon, Bartali si produce in un brillante inseguimento: ad uno ad uno rimonta una trentina di corridori. Vicini è 15° in classifica generale. Con la Belfort-Ginevra (302 km) iniziava la serie di quelle tappe multiple che avrebbero costituito la croce dei partecipanti; questa comprendeva ben tre frazioni, di cui due in linea ed una – l’intermedia – a cronometro per squadre. Era veramente chiedere l’impossibile ai corridori che in quella rovente domenica di luglio si alzarono alle 4.00 per disputare la prima parte in linea di 175 chilometri; alle 11.45, circa mezz’ora dopo essere arrivati, li attendevano 34 chilometri a cronometro con una lunga salita iniziale; ancora mezz’ora di riposo e poi gli ultimi 93 chilometri in linea con la scalata della Faucille. Il gran dispendio di energia muscolare e nervosa non portò vistosi mutamenti in classifica: Vicini, costretto a correre la cronometro in una squadra di isolati che di tutto avevano voglia tranne che di faticare, guadagnava 3 posizioni in classifica ma vedeva aumentare i minuti di ritardo. Era a 19’57” da Bautz e a 7’30” dal primo degli isolati, il belga Braekenveldt. A Ginevra, prima giornata di riposo in attesa delle difficili salite alpine, Mario cambiò la forcella della bicicletta: ormai erano finiti gli sconnessi lastricati del Nord e si poteva montarne una più leggera. Il corridore romagnolo poteva ritenersi soddisfatto dell’andamento della corsa: era 12°, con un distacco elevato ma non irrecuperabile ed aveva messo in evidenza buone qualità di fondo.

La Ginevra-Aix Les Bains (180 km), prima delle tappe alpine, non determina selezione. I corridori hanno visto profilarsi la tetra vetta del Galibier, il tetto del Tour, che domani li attende. Bautz conserva l’insegna del primato, Bartali riconquista il terzo posto, Vicini, vittima anche oggi di una foratura, è 11°. Ed eccoci alla durissima Aix Les Bains-Grenoble (288 km) che comprende la scalata del Col du Telegraphe (1.403 mt) e del Galibier (2.658 mt), cime da fare “tremar le vene e i polsi”. Il caldo è soffocante; sino ai piedi del Telegraphe l’andatura è modesta, poi iniziano i primi scatti e fugge l’individuale francese Gallien che precede un terzetto formato dallo spagnolo Berrendero, dal belga Lowie e da Vicini; Bartali e Maès sono a 2’30”; la maglia gialla, in piena crisi, accusa un distacco superiore ai 10′. All’orizzonte si profilano le creste del Galibier ancora coperto di neve. La strada sale, sale sempre, senza tregua; mancano alla vetta una quindicina di chilometri quando Bartali scatta e, scrollatosi da ruota il tenace Maès, si getta all’inseguimento del terzetto che, a sua volta, rincorre Gallien. I corridori vengono raggiunti: Lowie boccheggia, Berrendero abbozza un tentativo di difesa ma Bartali e Vicini se ne vanno. All’improvviso si mette a piovere; il fondo della strada peggiora continuamente, diventa stretto, malagevole, pantanoso. Improvvisati torrentelli trascinano ghiaia e fango; bisogna procedere sui solchi tracciati dalle ruote delle automobili. Le fisionomie dei corridori vengono cancellate da una maschera di fango; di vivo resta soltanto il rosso fiamma dei capelli del corridore romagnolo che resiste agli attacchi del toscano. Alternandosi al comando, i due italiani guadagnano terreno ai vista d’occhio; i belgi con Maès sono a più di 4′ ma Vicini si vede appiedato da una prima foratura. Bartali, ormai solo, supera Gallien e passa primo sotto lo striscione del traguardo della montagna; a 1’14” è Gallien, Vicini a 2’31”. Dopo un quarto d’ora non è ancora passato un certo Lapebie di cui avremo occasione di parlare più innanzi. Nella discesa Mario si tuffa all’inseguimento di Bartali ma la disdetta si accanisce contro di lui, fora infatti altre due volte; evidentemente i tubolari che gli passa, come isolato, l’organizzazione francese sono di pessima qualità. Lo superano così diversi corridori fra cui lo stesso Lapebie vistosamente aiutato dalle macchine al seguito; l’infrazione gravissima avrebbe richiesto una penalizzazione di tempo ma i commissari si limitarono a multare il francese di 100 franchi, decisione questa che trovò uniti nella protesta belgi e italiani. Al traguardo Bartali vinceva per distacco su Camusso e Lapebie, Vicini giungeva 11° a circa 8′. Il toscano vestiva la maglia gialla con oltre 9′ su Vissers; Vicini era 9° con 19’06”, Lapebie al 12° con 23’55”. Bartali, ben spalleggiato da Camusso nell’ultima parte della tappa, aveva compiuto una grande impresa ma notevole era stata anche la prestazione di Mario. Lo metteva in rilievo la “Gazzetta”: “Vicini forerà tre gomme, l’ultima a pochi chilometri dal traguardo. Scorrete ora l’ordine d’arrivo e pescate l’eccellente posizione conquistata dal rosso romagnolo. Vi accorgerete subito che ha disputato una tappa eccezionale. Il Giro di Francia sta laureandolo tra i più forti e intelligenti corridori europei”. Per quanto favorevole alla squadra italiana era stata la tappa di Grenoble, altrettanto infausta risulterà la Grenoble-Briançon (194 km) a causa di un incidente che danneggerà irreparabilmente il leader della classifica. Eppure la tappa era cominciata sotto i migliori auspici; sulle prime rampe della salita di Laffroy Bartali aveva forzato l’andatura e fatto selezione; l’erta di 7 chilometri era severissima, con una pendenza media del dieci per cento. Nella discesa la strada, dopo una brusca svolta a sinistra, diviene strettissima e attraversa un torrente, il Calau. Sul ponticello di pietra, Rossi, che è in testa, slitta e va ad urtare violentemente contro il parapetto ferendosi in diverse parti del corpo. Bartali, che lo segue, scarta bruscamente ma l’improvvisa sterzata proietta la maglia gialla contro il parapetto opposto e gli fa compiere un volo pauroso nel sottostante torrente. Nel trambusto il furgoncino che porta le macchine di ricambio si arresta di colpo e l’isolato Simonini vi sbatte contro riportando una ferita alla testa. Bartali si rialza penosamente; è tutto inzuppato d’acqua e la mano destra gli sanguina. Lamenta dolori al fianco destro e alla spalla; aiutato dal fedele Camusso riparte. Giungerà al traguardo a 11′ dal vincitore Veckerling ma riuscirà a conservare la maglia gialla. Vicini, che era rimasto nelle posizioni di testa durante tutta la tappa, giunge terzo all’arrivo e passa 7° in classifica a 12’10” dallo sfortunato toscano. L’indomani si correva la Briançon-Digne (220 km), la più terribile delle tappe alpine, comprendente l’Izoard, il Vars e l’Allos. Fin dalla partenza i belgi scatenarono l’offensiva buttandosi in una fuga indiavolata; il colpo era sferrato contro Bartali che, sofferente per la caduta e il bagno gelato del giorno innanzi, si trovò subito in difficoltà. I belgi tiravano come dannati senza tuttavia riuscire a liberarsi di Vicini, per nulla intimorito dall’attacco guidato da Maès. In vetta all’Izoard, primo era lo spagnolo Berrendero con una manciata di secondi su Verwaecke, Vissers, Maès e Vicini; Lapebie passava a 2’50”, Bartali a 3’55”. Nella discesa Mario forava e dopo aver cambiato il tubolare si gettava a capofitto alla rincorsa dei primi. “La discesa dell’Izoard è un folle rotolamento della mulattiera militare, fangosa e ghiaiosa, feroce per le sue curve a dietro front, precipitosa per i suoi dislivelli. Vicini l’ha presa a rompicollo. Non s’è messo a rincorrere. Ha fermato il motore e ha picchiato con un apparecchio d’alta acrobazia. Lo ripigliamo in basso, nella serpeggiante ed agevole via della vallata. Ride, ed è tutto rosso. È una tappa di salti mortali. I corridori dopo essere piombati giù dall’Izoard, assaltano immediatamente il Colle di Vars. Neanche il tempo di respirare. È una tappa da forzati della strada. Il panorama è selvaggio, dalle vette nevose sibilano lunghe e gelide raffiche di vento”. (“La Gazzetta dello Sport”, 10 luglio 1937). In vetta passano in cinque: Vissers, Maès, Lowie, il lussemburghese Mersch e Vicini che proprio al valico deve nuovamente fermarsi per cambiare una gomma avariata. Il ritardo di Lapebie è salito a 4’11”, quello di Bartali a 8′. Durante la discesa il romagnolo si riporta nuovamente sui primi e con essi attacca il Colle d’Allos: “La salita è lunga una ventina di chilometri. Al decimo Vicini dà uno sguardo sospettoso a Maès che gli succhia la ruota, e parte di slancio. La breve fila indiana si scompone. È come scuotere un alberello carico di frutti maturi. L’ultimo che resiste è Maès. Raggomitolato sulla bicicletta, in una tensione selvaggia delle sue energie, sembra uno gnomo. Resiste cento, duecento metri. Non resiste più. Mario Vicini va via tutto solo. In questo momento incomincia uno dei capitoli inediti del Giro di Francia. C’è un individuale – un corridore senza amici e senza aiuto, senza squadra e senza soldi – che parte alla conquista della maglia gialla. Dice Goddet che non è mai successo. Vicini monta i gradini del Colle con regolarità sorprendente. Non si volta neppure indietro per vedere dove sono i suoi avversari. Si sente bene e si sente forte. Gli scorriamo ai fianchi. Gli vociamo nelle orecchie che sta prendendo due piccioni con una fava: il primato fra gli individuali e, forse, la maglia gialla. – Ma va là… – risponde e ingolla lunghe sorsate d’acqua. Nasce una delle imprese più singolari e clamorose del ciclismo. Si rivela agli occhi degli esperti di nove Nazioni – tante sono le squadre rappresentate nel Giro di Francia – un atleta d’incomparabile vigoria. Sul libro d’oro del ciclismo internazionale un ragazzo romagnolo – oscuro pochi mesi or sono – iscrive il suo nome. Quando mancano alla vetta due chilometri e i rabbiosi inseguitori sono lontano meno di due minuti, Vicini riparte di scatto e passa sulla cima con 2’56” di vantaggio sul quintetto dei belgi: Maès, Vissers, Disseaux, Lowie, Verwaecke. Cinque che possono assistersi ed aiutarsi a vicenda e uno che non può chiedere niente a nessuno se non a sé medesimo. Cinque coalizzati per stroncare Bartali ferito e uno solo per vendicarlo. La storia del Giro di Francia non dimenticherà questa avventura. In essa non palpita soltanto un gioco strenuo e vittorioso di muscoli. In essa è un insopprimibile alito romantico. Alla vetta del Colle, Bartali ha perduto la maglia gialla. Alla vetta del Colle, Vicini conquista la maglia gialla. Il capitano soffre lungo le svolte, mentre il soldatino con una maglia qualunque, di colore grigio, il soldatino non immatricolato in nessun plotone, il soldatino romagnolo, canta il suo inno“. Tenendo conto dei 2’56” di abbuono in vetta all’Allos, Vicini era virtualmente maglia gialla con 25″ sul belga Maès. Mancavano ancora 80 chilometri al traguardo e Mario si rese conto dell’impossibilità di giungere solo a Digne. Una lunga fuga avrebbe potuto sfiancarlo a vantaggio dei belgi che incalzavano alle spalle. Perciò preferì rallentare e rifocillarsi, venendo raggiunto dalla pattuglia belga a cui si erano accodati i francesi Gallien e Lapebie. Quest’ultimo aveva portato a termine l’ascensione dell’Allos, aiutato da una catena di spinte apertamente richieste. I belgi, scattando a turno, tentarono di scrollarsi di dosso Vicini che però tenne duro finché a 30 chilometri dall’arrivo era Lapebie a piantare in asso la compagnia. La fuga del francese costituirà un punto nodale non solo della tappa ma del Tour. Vicini pensava che fossero i belgi ad organizzare l’inseguimento, ma costoro non forzarono l’andatura ritenendo il francese non troppo pericoloso; d’altra parte il cesenate, che aveva in Maès il suo diretto avversario, si limitò a controllarlo. Così Lapebie giunse a Digne con tre minuti e mezzo di vantaggio aggiudicandosi inoltre 1’30” di abbuono. Mario era 5°, Bartali concludeva il suo calvario con 23′ di ritardo. Al traguardo si fanno calcoli febbrili, poi l’altoparlante annuncia che Vicini è la nuova maglia gialla del Tour: “La stupefazione, la meraviglia dell’atleta sono commoventi. Il vincitore morale della tappa si guarda in giro come se si stupisse di trovarsi sulla terra. Forse crede di sognare”. È un momento di grande emozione: i giornalisti si precipitano al telefono mentre i radiocronisti trasmettono che l’unico isolato italiano rimasto in gara ha conquistato le insegne del primato. Un’ora dopo, in albergo, il colpo di scena: i commissari, spulciando i loro quaderni neri, rilevavano che nella tappa precedente a Vicini era stato inflitto un minuto di penalizzazione “per aver ricevuto da bere da una vettura al seguito della corsa”. Era ammesso il rifornimento lungo la strada da parte di sportivi, ma non che una vettura ufficiale porgesse acqua ad un cristiano assetato che da ore e ore soffriva in bicicletta. Per un sorso d’acqua si toglieva a Vicini la maglia gialla! Ma ben più grave era il fatto che il corridore non fosse stato avvertito della penalizzazione alla partenza; infatti, sapendolo, avrebbe potuto dare un’altra impostazione alla corsa. In realtà a Briançon non si era detto nulla della punizione perché nessuno supponeva che Vicini, povero isolato, sbaragliasse nella durissima tappa dei tre colli alpini ogni avversario. Lo si considerava ancora una figura di rincalzo con cui ci si poteva permettere anche questo genere di scorrettezza. A tarda sera, in seguito alle giuste proteste degli italiani, i commissari decisero di assegnare a Vicini i premi spettanti al primo in classifica ed una maglia gialla a titolo d’onore da indossare per la tappa successiva. In classifica Mario era a 35″ da Maès; Lapebie passava al 3° posto a 1’22”. Con lui il comportamento della giuria era stato ben diverso: nonostante le spinte sollecitate e ricevute e quantunque fosse stato visto farsi trainare da una vettura, non venne neppure multato! A Digne, seconda giornata di riposo, i 62 superstiti del Tour ritemprarono le forze in attesa dell’ultima tappa alpina. Vicini si riebbe dalle emozioni del giorno precedente ma in campo italiano non si era ancora digerita la palese ingiustizia perpetrata nei confronti dell’isolato: “Che importa se dieci e dieci vetture, attente a non farsi cogliere dai gendarmi dell’organizzazione, hanno offerto ai corridori in ritardo bottiglie d’acqua, e banane, e uova e pesche? Cosa importa, se i trasgressori del regolamento hanno avuto l’accortezza di non farsi pescare, aspettando il risvolto d’una curva, la spalletta d’un ponte? Tu sei stato visto, buon Mario Vicini. E il minuto di penalizzazione – un niente, a pensarci, nel groviglio dell’ora che compone e scompone la classifica generale t’è venuto addosso come il vaso di fiori sulla testa del nasuto Cirano. Mettilo in quadro, il minuto di penalizzazione. Scrivici sotto la tua firma, e offrilo al samaritano che ti ha dato umanamente, storditamente, da bere. Per una caduta e un poliziotto pietoso Dorando Petri ha perso una maratona, ma l’ha persa triofando. Per una gola rovente e un sorso d’acqua illegittimo Mario Vicini ha perso la maglia gialla, ma l’ha persa trionfando” (“La Gazzetta dello Sport”, 11 luglio 1937).

Alla partenza della Digne-Nizza (251 km) ultima delle tappe alpine, fatto nuovo ed unico nella storia del Tour, due atleti vestivano la maglia gialla. La scena si presentava grottesca così come grottesco era stato il comportamento della giuria. Vicini, nonostante i ripetuti attacchi sferrati dai belgi, non concesse a Maès neppure un secondo. Sulle rampe del Braus venne urtato dallo spagnolo Ezquerra e si dovette fermare per oltre un minuto a rimettere a posto il tubolare sgusciato; i belgi, passatasi la voce, accelerarono il passo ma in quattro chilometri, discendendo come solo lui sapeva fare, Vicini agguantava i fuggitivi: “Dovreste vederlo in discesa: se la strada è diritta fa il riccio sulla sella, si arrotola e viene giù applicando a se stesso la regola della forza di gravità. La nostra vettura, a settanta, non lo piglia. Ma se la strada disegna una curva, Vicini, sbandando tutto su un lato, sembra la vela gialla di un panfilo percorso e piegato dal maestrale. Uno spettacolo d’acrobazia da chiudere gli occhi e da tapparsi le orecchie nel timore di udire l’urlo della catastrofe”. Mario fu ugualmente deciso nell’affrontare le salite della giornata: “Snello, asciutto, tutto muscoli longilinei, tutto elasticità nella pedalata, parrebbe tagliato apposta per le corse veloci. E invece la struttura atletica si trasforma quando la strada s’arrampica. Le gambe del corridore diventano stantuffi d’acciaio, le sue spalle spalancate in pianura s’incurvano e si raccorciano. La punta del piede s’inchioda nella pedaliera, i gomiti si serrano al torso. Vicini non dà mai l’impressione dello sforzo e sembra sempre che egli salga in perfetta armonia di ritmo”. La tappa non portò mutamenti in classifica e si concluse con la vittoria del belga Verwaecke; Vicini giunse 5°, Bartali sembrò dare qualche segno di ripresa. Emilio Colombo si esprimeva in termini lusinghieri nei confronti del corridore romagnolo, a suo dire uno dei più validi in campo: “Vicini è un pioppo. A Grenoble, dopo quella terribile tappa, aveva le labbra tumefatte dalla febbre. Non ha accusato nessuna debolezza. Atleta dai mezzi poderosi, Vicini s’è fatto strada da sé. Ha dovuto battersi con il cuore in gola, nelle prime tappe. Non ha avuto fortuna. Pesante e impetuoso – è alto 1 metro e 80 e pesa 78 kg – buca sovente. Si è ambientato con rapidità sconcertante. Si spiega a gesti. E si è fatto conoscere attraverso l’eloquenza delle dimostrazioni pratiche. In alcune tappe è stato il concorrente più forte. È l’atleta tagliato per le prove a tappe. Durante le quali trova l’efficienza maggiore, la sicurezza migliore, l’impeto, la convinzione e l’autorità del campione autentico. Ha lavorato molto, da Parigi a Nizza. Sarà handicappato nelle tappe a cronometro non individuali. Ma è già la rivelazione del Tour” (“Guerin Sportivo”, 13 luglio 1937). Dopo il giorno di riposo trascorso a Nizza, il 13 luglio si riparte alla volta di Marsiglia; la tappa è divisa in due frazioni: Nizza-Tolone, 169 chilometri in linea, e Tolone-Marsiglia, 65 chilometri a cronometro per squadre. Si corre sotto il cielo azzurro della Provenza in un clima torrido. La prima semitappa non apporta mutamenti in classifica. Nella seconda frazione il regolamento è contro Vicini che viene incluso in una squadra di individuali belgi e francesi che non volevano certo rendere difficile la vita ai loro connazionali. Mario si battè come un leone ma, a 15 chilometri dal traguardo, dovette fermarsi a cambiare un tubolare forato; fu costretto allora a inseguire da solo la sua squadra con uno sforzo veramente sovrumano: “Quei quindici chilometri Vicini non li percorse. Li volò. Arrivò a Marsiglia nella scia della sua squadra occasionale. Entrò nello stadio come una palla da schioppo. Quando smontò dalla bicicletta, tutto nero per il catrame che a pulviscoli infuocati volteggiava sulla strada riarsa dal sole di luglio, non domandò di Vissers, ma di Maès. Seppe il tempo della squadra belga. Controllò il proprio. Si limitò a dire che, con compagni più risoluti, avrebbe potuto fare di meglio e di più. Non si lamentò e non imprecò. Vicini è di quelli per i quali conta meno il regolamento che la bicicletta. Vicini ha veramente ‘l’anima del Giro’, quel saper soffrire, quel saper accettare, quel saper aspettare nei quali si compendia e si plasma il combattente della strada”. In questa occasione Camusso coniava per il corridore romagnolo l’appellativo di “freccia di rame”. La tappa venne vinta dalla fortissima squadra belga che correva al completo e Maès poté così consolidare il suo primato; 2° in classifica era Lapebie a 2’53”, 3° il belga Disseaux, Vicini retrocedeva al 4° posto a 5’48”. Bartali, non ancora rimessosi dai postumi della caduta, decideva di ritirarsi. Unica consolazione per Vicini, il cospicuo premio di 5.000 franchi in palio a Marsiglia per il primo degli isolati; veramente il nostro non vide mai quel denaro, probabilmente intascato dalla Federazione per pagare le spese di albergo del corridore cesenate. La tappa a cronometro per squadre aveva messo in evidenza l’assurdità del regolamento: “Abbiamo questo. Che un Mario Vicini, degno emulo dei fortissimi belgi, s’è visto prendere per il petto e ricacciare indietro, nei meandri della classifica, in un posto che non è affatto suo. È stato, sotto questo aspetto, sconfitto Vicini o è stato sconfitto lo sport? La risposta non è dubbia. Ma il commissario tecnico dei belgi non l’ha proclamato l’atleta più pericoloso per i suoi straordinari ragazzi? Non ha detto che, sotto il rullo compressore dei belgi, soltanto Vicini ha dimostrato di avere la pelle del rinoceronte? È un individuale, ragione di più per ammirare la sua corsa. È un individuale, ragione di più per alleviare sulle sue spalle il peso dell’isolamento. Niente. Il regolamento è draconiano. L’atleta che è riuscito ad intrufolarsi, a prezzo di distacchi in salita, nella compagnia ferrea dei belgi, è fatto partire coi corridori che tutte le mattine accendono lo stoppino dei fanali di coda. Ne risulta che Vicini è battuto in partenza, battuto due volte. Battuto perché gli manca la possibilità di lottare da pari a pari coi suoi avversari diretti. Battuto perché viene incluso in una squadra che comprende tre individuali belgi, amiconi – ed è naturale ed umano – di quel Vissers che punta alla vittoria di categoria” (“La Gazzetta dello Sport”, 14 luglio 1937). In seguito alle numerose rimostranze, Desgrange, avvalendosi del suo leonino regolamento, decise di abolire le tappe a cronometro per squadre e individuali fino a Bordeaux, adducendo che erano state preventivate nel timore che i corridori mancassero di combattività, mentre i continui arrivi frazionati avevano dimostrato il contrario. Questa decisione suscitò le proteste della squadra belga che, forte ancora di ben nove unità in piena efficienza, aveva nelle tappe a cronometro la carta migliore del suo gioco. Desgrange, fingendo di andare incontro alle richieste degli isolati, faceva in realtà un grosso favore a Lapebie rimasto capitano della diroccata squadra francese. Le due successive semitappe Marsiglia-Nimes (112 km) e Nimes-Montpellier (51 km) si svolsero a 40 gradi all’ombra, l’asfalto pareva lava fusa. Vicini, che aveva rosicchiato 35″ a Maès appiedato da una foratura, passava al 3° posto. Niente di nuovo neppure nelle due semitappe Montpellier-Narbona (103 km) e Narbona-Perpignano (63 km).

A Perpignano, riposo in attesa delle tappe pirenaiche; Vicini ne approfittò per smaltire la fatica accumulata nelle giornate precedenti e per studiare un po’ l’altimetria dei Pirenei, le montagne che, forse, avrebbero laureato il vincitore del Tour. Il campione romagnolo era fiducioso nei suoi mezzi, pur non facendosi soverchie illusioni: “Le condizioni di salute del corridore sono eccellenti. Sulle labbra ha un residuo di febbre, ma la sua muscolatura e il suo spirito sono sani ed integri. Vicini ha l’anima del corridore coniato alla zecca del Giro di Francia. Nella valutazione degli avversari e del rischio è freddo, paziente ed accorto. Non ostenta programmi di sorta, ma neppure maschera il suo orgoglio. Vedetelo in corsa. Non c’è mai pericolo che si barcameni, che si sbandi, che si perda nelle posizioni della retroguardia. Viaggia sempre nelle ruote dei primissimi, in quarta e quinta posizione. E quando qualcuno scappa alla disperata, con un fulmineo colpo d’occhio ne controlla la sagoma e il numero. Sa subito se deve partire alla caccia o se è sufficiente stare in guardia. Ha scritto a casa sua una lunga lettera; ha scritto che sarebbe contento di arrivare a Parigi nei primi cinque e di vincere la categoria degli individuali. E spera che le gomme lo risparmino, dopo averne bucato nove dall’inizio del Tour”.

La prima tappa pirenaica, Perpignano-Luchon (323 km), era stata divisa in tre frazioni; c’era da sottoporre la classifica, tuttora incerta, al vaglio delle montagne. Levataccia quindi alle tre del mattino per partire un’ora dopo alla luce dei fari delle automobili. La prima frazione, con arrivo a Bourg Madame, vede la vittoria di Meulemberg sul plotone pressoché compatto; Vicini si piazza al 3° posto. È lo spagnolo Canardo ad aggiudicarsi la seconda frazione ad Aix-les-Thermes ed è ancora Meulemberg a sfrecciare al traguardo di Luchon. Vicini aveva attaccato ripetutamente sulle non difficili asperità del Port e del Portet senza tuttavia riuscire a sorprendere Lapebie e Maès. In discesa il cesenate era caduto ferendosi a un piede ma dopo una sommaria fasciatura aveva raggiunto il gruppo di testa. Un giornalista francese, spettatore di quell’incidente, ebbe a scrivere il giorno dopo: “Quello è un uomo d’acciaio!”. Oltre dodici ore trascorse in sella non avevano apportato alcun mutamento nella classifica. La stampa esaltava la combattività dell’atleta romagnolo che di giorno in giorno diveniva sempre più popolare in Francia; già gli organizzatori delle riunioni su pista se lo disputavano. “Vicini attacca, attacca sempre. Attacca in piano, in discesa, in salita. La sua maglia grigia, con la fascia verde, e quella sua testa da birillo rosso tu le vedi sempre all’avanguardia del gruppo. Non gli importa di sapere che, se buca una gomma, tutti gli saltano addosso mentre potrebbe sgusciare via inosservato se s’accontentasse di pedalare nel centro del gruppo. Ha in corpo una gioia, una esuberanza di salute che meravigliano i suoi stessi antagonisti. Quale è stato, oggi, il corridore che sull’uno e sull’altro colle ha tentato di piantare in asso il gruppo? Vicini, nient’altro che Vicini. Egli trova per ogni arrivo di tappa qualche nuova proposta di contratto per corse sui velodromi. Fa la sommetta grassa che ci vuole per tornare a Cesena col vestito nuovo, un libretto da firmare alla banca e una penna da mettersi sul cappello”. Nella giornata di riposo a Luchon si tirano le somme: Maès capeggiava la classifica con 2’18” su Lapebie e 5’13” su Vicini. Il francese, scarsamente dotato in salita, era però finora riuscito sempre a rientrare, sia pure andando ben oltre illecito. Il romagnolo aveva un distacco superiore ai 5′, ma sarebbe bastato a mettere al riparo il belga dagli attacchi di quell’arrampicatore di razza? Jacques Goddet, redattore capo di “L’Auto”, scriveva a proposito: “Se vi è un corridore sicuro di sé, che non ascolta che se stesso, che non obbedisce che ai propri impulsi, è Mario Vicini, il fenomeno del Tour. Per me Vicini sarà l’attrattiva principale della corsa di domani e sono quasi convinto che egli costringerà tutti i corridori a sforzi terribili. Vedremo chi potrà resistergli”. Vicini, intervistato da un corrispondente de “Il Corriere padano”, affermava: “Non mi faccio illusioni. Maès sta bene. È fresco e in forma ed ha soprattutto il morale di chi porta la maglia gialla. In più ha a disposizione uno squadrone nel quale Verwaecke è l’uomo che va più forte di tutti noi in salita. lo però, da buon romagnolo, non mi darò per vinto senza avere prima sparato tutte le mie cartucce. Adotterò la stessa tattica che mi fece guadagnare… metà della maglia gialla nella tappa di Digne. Attaccherò, ben disposto ad avanzare in classifica o anche, nella peggiore delle ipotesi, a retrocedere. Non c’è via di mezzo. Bisogna dare battaglia e la darò. Personalmente ho l’idea che Maès resisterà, ma non lascerò nulla di intentato”. L’indomani i 56 corridori rimasti in gara partono da Luchon alla volta di Pau (194 km); è l’ultima tappa di montagna, nel cui itinerario sono compresi i giganti dei Pirenei: il Peyresourde, l’Aspin, il Tourmalet e l’Aubisque. Sono 70 chilometri di salite con pendenze micidiali su strade dal fondo sterrato.

La squadra belga attacca fin dalla partenza, il commissario tecnico Steyaert si è posto quattro obiettivi: maglia gialla per Maès, Gran Premio della montagna per Verwaecke, primato degli individuali per Vissers e la vittoria nella classifica per nazioni. Gli obiettivi sono ambiziosi ma il commissario può contare sull’efficienza e la disciplina della squadra. Sul Peyresourde (mt 1.545) passa Berrendero con pochi secondi sui belgi; Vicini, che accusa dolore al piede ferito, è a 1’55” e Lapebie a 2’07”. Sul Col d’Aspin (mt 1.189) lo spagnolo è ancora primo, Vicini transita 8° a 4′ 15″ con lieve vantaggio su Lapebie. La discesa è lunga, difficile e pericolosa, e presto arriverà il terzo gigante della giornata. In discesa Mario comincia a recuperare, poi nell’interminabile salita del Tourmalet (mt 2.122) la sua azione si fa più decisa: “Lungo la strada incisa a mezza costa, la sagoma di un corridore che arranca all’inseguimento. È una sagoma nota. È un corridore che sale strappando il manubrio a destra e a sinistra con un ritmo violento e cadenzato. È Mario Vicini; l’aspettiamo, lo cronometriamo. Ha più di tre minuti di ritardo sul quartetto che sale. È solo. È tutto sospeso sui pedali e li spinge con una lenta ma inesorabile rotazione delle gambe. La sua bicicletta, nell’ascesa implacabile, disegna un’onda continua, ma la ruota non rallenta mai, non cede mai. Vicini è nella pienezza della sua forza fisica. Gli si è screpolata la crosta che i postumi di febbre avevano formato sul suo labbro inferiore. Sanguina. Si lecca il sangue, e ha il mesto sorriso dell’uomo impegnato in uno sforzo crudele. L’inseguimento di Vicini è ostinato, pacato, irresistibile. Per ogni pedalata abbatte un secondo del distacco che lo separa dai primi”.Sulla cima Vicini è 5° a 1’41” da Berrendero e dalla pattuglia belga ridotta ai soli Maès, Verwaecke e Vissers; il ritardo di Lapebie ammonta a quasi sei minuti. In discesa il romagnolo acciuffa i fuggitivi; Verwaecke quando se lo vede accanto fa un gran gesto con una mano spalancata ed esclama: “Le diable touge est arrivé”. Il diavolo rosso è arrivato per davvero; l’orgoglioso castello costruito dai belgi vacilla, 80 chilometri di fuga non sono serviti a nulla. Lungo il tratto ondulato che collega il Tourmalet all’Aubisque rientra anche Lapebie ma Vicini, che pare avere il fuoco nelle gambe, opera scatti su scatti finché riesce a piantare in asso i suoi rivali: “Allorché la strada diventa impossibile e si profila all’orizzonte la cupola nera dell’Aubisque e gli ultimi alberi scompaiono e non v’è che sole e arsura, coraggio e sofferenza, Vicini tenta la sua radiosa sorte nel Giro di Francia. Scatta, si stacca, fugge. Soltanto Berrendero, in uno spasimante richiamo delle estreme energie, l’insegue. Gli altri squassati. Vicini è solo, solo alla conquista della vetta romantica e diabolica. Come per una favolosa gara a staffetta, Vicini ha raccolto il bastone del primato che Bartali, lo scalatore del Galibier, gli ha affidato. Galibier e Aubisque, i tetti del Tour. Galibier e Aubisque, i nomi oscuri e svettanti dei racconti misteriosi che i ‘vecchi’ del Giro recitano ai ragazzi delle fresche generazioni, abbassando la voce. Galibier e Aubisque, segni di nobiltà atletica del Giro di Francia, sfide erculee lanciate da Desgrange ai forzati della strada. Galibier e Aubisque, alfa e omega della disumana impresa. Galibier e Aubisque: Gino Bartali e Mario Vicini”.

Sul culmine dell’Aubisque Vicini precede di 16″ Berrendero, Maès è a 2’19”, gli altri seguono con distacchi vistosi. L’italiano si butta giù per la discesa a rompicollo, senza badare alla ghiaia, alle scanalature, alle buche, alla polvere che tormentano la strada. Se le forze lo sorreggono, se la fortuna lo assiste, a Pau lo attende la maglia gialla; mancano 57 chilometri all’arrivo, 30 dei quali in discesa. La sua destrezza in discesa è famosa, quasi leggendaria; al Tour fra i corridori di tutte le favelle si parla con ammirazione del discesista romagnolo. Dopo 10 chilometri il vantaggio su Berrendero è salito a 2′, gli altri sono lontani, il cesenate appare l’arbitro della situazione, ma ecco la decima foratura tarpare le ali al bel sogno di vittoria. Berrendero supera come un lampo lo sfortunato corridore intento a sostituire il tubolare; gli sconfitti Maès e Lapebie lo raggiungono: “Deve accodarsi alla pattuglia. Deve oscillare nelle ruote altrui fino al traguardo. Il dominatore dell’Aubisque deve rassegnarsi alla gelida legge della malasorte. I dadi gettati in aria nell’ultima e decisiva partita della giornata hanno tradito l’atleta italiano proprio nel momento in cui l’anelito alla vittoria stupenda ha gonfiato il suo petto, illuminato il suo sguardo” (“La Gazzetta dello Sport”, 20 luglio 1937). Al traguardo Berrendero è primo con 49″ su Lapebie; Vicini giunge 4°. Le emozioni della giornata non erano ancora finite: il commissario belga infatti sporgeva reclamo nei confronti di Lapebie che lungo la salita del Tourmalet era stato visto attaccarsi a macchine del seguito per ben dieci volte e nella scalata dell’Aubisque aveva usufruito di un servizio organizzato di spinte, una vera e propria “funicolare umana”. Si spiegava così come il francese avesse potuto neutralizzare il pesante distacco e rientrare nella pattuglia dei primi. Un equo verdetto della giuria avrebbe dovuto mettere Lapebie fuori gara ma neppure questa volta lo si volle punire come meritava: c’era di mezzo l’orgoglio nazionale e i giurati si limitarono ad infliggergli la ridicola penalizzazione di 1’30”. Era il colmo; tanto più che il francese, intervistato alla radio, minacciava di ritirarsi se non veniva amnistiato, con lo scopo evidente di creare un clima di tensione soprattutto nella Gironda, sua regione natale, sede di arrivo della prossima tappa. La nuova classifica generale risultava quindi la seguente: 1° Maès, 2° Lapebie a 3’02”, 3° Vicini a 4’57”. Il giorno di riposo a Pau fu avvelenato dalle polemiche: Lapebie furibondo (oppure faceva la commedia?) per la tenue penalizzazione aveva accusato Maès di essersi fatto attendere dall’isolato belga Vissers ma si era visto respingere il reclamo in quanto infondato. L’atmosfera era sovraeccitata, lo stesso Desgrange appariva molto preoccupato per la piega assunta dagli avvenimenti. I corridori italiani, rimasti estranei alle vivaci discussioni, trascorsero una giornata tranquilla recandosi nella mattinata a visitare la grotta e il santuario di Lourdes. La stampa metteva in evidenza la bella se pur sfortunata prova di Vicini: “Nella tappa vertice del Giro di Francia il corridore romagnolo è stato, virtualmente, il padrone del campo. Vicini è stato il corridore che ha sventato l’orgoglioso piano dei belgi. Quando li ha raggiunti e scavalcati sull’Aubisque non s’è limitato a dimostrarsi l’arrampicatore tipo del Giro, il successore di Bartali. Ha paralizzato, lui solo, l’offensiva scatenata dalla squadra belga. Senza la disgraziata foratura, ed è Desgrange a dirlo, avrebbe potuto conquistare la maglia gialla” (“La Gazzetta dello Sport”, 21 luglio 1937).

Di solito il Giro di Francia muore a Pau. I corridori superstiti, scavalcati i Pirenei, pigliano la strada di Parigi in pace. La classifica è sistemata, le ambizioni appagate, viene il momento della disintossicazione. Quell’anno invece c’era aria di tensione, si paventavano disordini. In questo clima surriscaldato prendeva il via la Pau-Bordeaux (235 km), tappa piatta ma particolarmente scabrosa per lo stato d’animo venuto a crearsi. I commissari, temendo gesti inconsulti da parte del pubblico, non seguirono la corsa, puntando direttamente su Bordeaux. Desgrange abbracciò il medesimo partito; tappa quindi senza commissari né direttore di corsa. Ben presto cominciarono le intemperanze degli spettatori nei confronti dei belgi; l’automobile del direttore tecnico della squadra belga venne assalita dalla folla e fu costretta ad abbandonare il percorso della tappa ed a proseguire per strade secondarie. La giornata era caldissima. Per ore si marciò a lenta andatura in una vera fornace. A circa 40 chilometri dal traguardo, Maès forava ed il gruppetto dei primi in classifica si involava a pieni pedali. Ben assistita dalla squadra, la maglia gialla si buttava all’inseguimento ma la pattuglia belga veniva fermata da un passaggio a livello appositamente chiuso dal casellante. I corridori scesi dalle biciclette furono fatti oggetto di insulti e villanie. Per il resto della tappa si lanciarono sabbia e pepe macinato in faccia ai belgi e si lacerarono le bandierine belghe poste sulle macchine al seguito. A Bordeaux il francese Paul Choque batteva in volata Lapebie ed un gruppo di cui faceva parte anche Vicini. In classifica generale Maès era ancora primo, Lapebie che aveva usufruito di 45″ di abbuono era a 39″, Vicini a 3’19”. Alla sera quei pavidi commissari che non avevano assistito alla corsa, con un’impudenza che rasentava la follia, infliggevano a Maès 15″ di penalizzazione per aver ricevuto aiuto nell’inseguimento da alcuni individuali belgi. Fu il colpo di grazia! Nella notte il direttore tecnico Steyaert radunò i suoi uomini e dopo un consiglio durato parecchie ore, i belgi annunciarono il loro ritiro dal Tour. Il giorno dopo il giornale sportivo belga scriveva: “Il desiderio della Francia sobillata è esaudito. Silvère Maès abbandona la corsa a Bordeaux lasciando la maglia gialla a Lapebie e ai suoi anti-sportivi scudieri. La squadra belga, defraudata dagli organizzatori, provocata dalla stampa partigiana, insultata dalla folla, si ritira dalla battaglia sportiva” (Sportwereld”, 22 luglio 1937). La situazione assumeva, inaspettatamente, una fisionomia tutta nuova. Sparito Maès che era stato con il corridore cesenate il protagonista della corsa, rimanevano in lotta per il primo posto Lapebie e Vicini, distanziati da 2’40”. Il francese appariva il favorito per diversi motivi: restavano tappe pianeggianti e Lapebie, più veloce del romagnolo, poteva usufruire degli abbuoni; l’atleta di Bordeaux aveva a sua disposizione una squadra, decimata sì, ma pur sempre valida per aiutarlo in caso di foratura; infine, fattore non trascurabile soprattutto alla luce di quanto era successo, correva in casa. L’italiano invece vedeva davanti a sé tutti i rischi dell’isolato; cosa poteva capitargli se in seguito a una foratura i francesi lo avessero attaccato a fondo? C’era il pericolo di perdere la seconda posizione: “Lapebie, ora che la montagna non c’è più e si va dondolando a Parigi, ha una squadra di passisti e di velocisti ai suoi comandi. È assicurato contro il rischio della foratura. E Vicini? Vicini è un individuale. Vicini è solo. Se buca, la gomma nuova deve adattarla sul cerchio personalmente e per l’inseguimento deve affidarsi soltanto alle sue gambe. Se mi butto a rompicollo – egli pensa – se profitto di ogni ondulazione del terreno per andarmene con le gambe in spalla, cosa mi succede, se una gomma mi tradisce? Ecco il ragionamento di Vicini che nella sua qualifica di individuale trova un freno al suo temperamento di combattente spericolato”. Con questi presupposti Vicini ritenne opportuno – e fu, secondo noi, decisione saggia e ben ponderata – accontentarsi del secondo posto senza tentare colpi di mano il cui successo sarebbe stato aleatorio per non dire impossibile. Giungiamo alle ultime tappe di questo Tour veramente rocambolesco. La Bordeaux-La Rochelle (227 km), divisa in tre frazioni, venne affrontata dai 46 corridori rimasti in gara dopo il ritiro della squadra belga. Il primo segmento di tappa fu appannaggio del tedesco Bautz che ebbe la meglio sul gruppo; Lapebie, giunto 2°, intascava altri 45″ di abbuono. Volata tumultuosa nella seconda frazione con vittoria a pari merito dell’individuale belga Braeckenweldt e del tedesco Wengler. Sull’ultimo traguardo irruppero Martano e Lapebie; pareva che l’italiano fosse riuscito a spuntarla ma i commissari sentenziarono che il francese era giunto primo. Così Lapebie usufruendo degli abbuoni era a 4’55” da Vicini. Il giorno successivo ebbe luogo La Rochelle-Rennes (253 km) divisa in due semitappe di cui la prima a cronometro per squadre. Vicini questa volta venne inserito coi superstiti della squadra italiana: Martano, Introzzi, Camusso e Romanatti. La corsa si risolse sul filo dei secondi; al traguardo, la squadra francese precedette gli italiani di soli 11”; cento metri di distacco in oltre 80 chilometri. Nulla di mutato nella seconda frazione vinta dal francese Choque. Una certa attesa suscitò la Rennes-Caen (173 km) soprattutto per la seconda frazione a cronometro individuale. Il sorteggio non favorì il nostro corridore, costretto a partire per primo e per di più, in qualità di isolato, senza macchina al seguito. Vicini si battè coraggiosamente giungendo 6° e concedendo a Lapebie soltanto 12″ in 59 chilometri. Alla sera però il ritardo del romagnolo fu aggravato da una penalizzazione di due minuti, inflittagli dai commissari per aver ricevuto una ruota da Romanatti: all’undicesima foratura Vicini si era ribellato, rischiando una punizione che poteva essere anche più grave. Senza storia l’ultima tappa, Caen-Parigi (234 km), una sorta di passerella alla volta del Parco dei Principi sulla cui pista giunse primo l’individuale belga Vissers. Poi la consacrazione di Lapebie, i rituali giri d’onore nel frastuono degli altoparlanti, delle fanfare, tra i clamori di una folla in delirio. Vicini divideva in 46 fette, quanti erano i corridori superstiti, un monumentale panettone arrivato fresco fresco dalla Motta di Milano. Nella classifica finale l’italiano era 2° a 7′ 17″, 3 ° lo svizzero Amberg a 26’13”. Vicini risultò 2° anche nella classifica del Gran Premio della montagna con 97 punti.

Sul XXXI Tour calava il sipario, il grande anello era chiuso.

Prima di formulare un giudizio finale crediamo sia opportuno fare alcune precisazioni alla luce delle quali sarà più facile inquadrare gli avvenimenti avvenuti. I corridori non sono né santi né eroi ma uomini quasi sempre venuti dalla povertà, lanciati alla conquista di una piccola fortuna economica da guadagnarsi al prezzo di fatiche massacranti e brutali. Il Giro di Francia è perciò un avvenimento in cui si rispecchiano le virtù e i difetti di questi uomini. C’è poi sempre il rischio che la folla degli spettatori, galvanizzata dalla lotta, dimentichi le leggi della passione sportiva, scatenando istinti che con lo sport nulla hanno a che vedere. Possono allontanare questo pericolo la lealtà di tutti gli atleti, l’efficienza dell’organizzazione e la fermezza della giuria. Quasi mai, invece, come nel 1937, vennero meno questi tre presupposti; così la passione popolare che voleva a tutti i costi la vittoria francese, dilagò fino ad avere il sopravvento.

Per questo il Tour fu vinto da un corridore la cui prova non può certamente essere citata come un modello di regolarità. La vittoria di Lapebie fu assicurata più che dalle gambe dell’atleta dalle braccia degli spettatori che, sulle salite più dure, gli garantirono una continua e comoda funicolare proprio nei momenti in cui stava per cedere definitivamente. Partiti i belgi per le intemperanze del pubblico e la grossolanità della giuria, il Giro era vinto. Lo stesso Vicini dovette adottare una tattica meno garibaldina e venire a certi accomodamenti. Comunque la stampa fu concorde nel riconoscere il valore del romagnolo che in un clima più sereno avrebbe forse potuto aggiudicarsi la corsa.

Articolato e ricco di dati tecnici il giudizio su Lapebie e Vicini de “La Gazzetta dello Sport”: “Lapebie ha vinto il Giro di Francia. Il Tour non è stato vinto dal miglior corridore in campo. Lapebie è semplicemente il profittatore della lotta strenua che fino dalla partenza si è impegnata tra l’italiano Bartali e il belga Maès. Bartali ha perduto la maglia gialla in un torrente. Maès ha abbandonato la maglia gialla sul letto di una camera d’albergo. Da questa perdita e da questo abbandono è uscito Lapebie. Sino alla vetta del Colle d’Allos nessuno aveva pensato a lui. Era per tutti, francesi compresi, un corridore tenace e orgoglioso, che aveva raccolto lo scettro troppo frettolosamente abbandonato da Speicher e da Archambaud. Lapebie è entrato in scena nella tappa di Digne. Non si sa bene come si sia arrampicato sui pendii asperrimi dell’Izoard, del Vars, dell’Allos: c’è chi afferma di avere visto una mano sporgersi dalla vettura di Avocat, giornalista francese, per afferrare la mano di Lapebie, a scopo di tiraggio illecito. Resta il fatto che Lapebie era estraneo alla lotta tra le vedette sino alla discesa dell’Allos. Lungo questa discesa ha raggiunto i corridori d’avanguardia, e nelle vicinanze di Digne li ha attaccati e distaccati. Al traguardo di Digne Lapebie è diventato l’avversario diretto di Vicini, maglia gialla platonica, e di Maès, maglia gialla regolamentare. Il fantomatico ritorno dell’atleta francese, clamoroso e inaspettato per tutti, ridiede ala e sprone agli sportivi francesi che già si erano rassegnati allo sconquasso della squadra nazionale. Per i francesi – folla e giornalisti – fu una puntura d’etere. Lapebie diventò l’idolo delle moltitudini, il salvatore di un compromesso prestigio atletico. Da quel momento Lapebie diventò il ‘Ruggero nazionale’. Donde le furiose spinte e i rifornimenti su per il Tourmalet e l’Aubisque, donde l’inadeguata penalizzazione del minuto e mezzo, donde il pronunciamento della stampa francese, donde la rivolta degli sportivi girondini, donde l’incapacità degli organizzatori di fronteggiarla, donde il ritiro della squadra belga. Da Parigi a Digne la corsa si è impostata nella sfida tra Bartali e Maès. Da Digne in poi la corsa si è risolta nella resurrezione e nella beatificazione di Lapebie. Al suo passivo militano le montagne sulle groppe delle quali, nonostante i disperati aiuti dei fanatici, non è riuscito che a racimolare una miseria di punti. Al suo attivo militano le doti di intelligenza e di slancio manifestate da Pau a Parigi. Trovato il terreno ondulato, Lapebie ha trovato la chiave di casa sua. Da Pau a Parigi non c’è niente da obiettare alla condotta sportiva del vincitore del Giro. Siamo i primi ad ammettere che Lapebie ha barato sulle montagne. Siamo i primi ad ammettere che, in ogni frangente della gara, da Pau a Parigi (tappa individuale a cronometro compresa), Lapebie è stato uno dei più vigili ed ardenti in lizza. La vittoria finale del francese ha nelle montagne la sua grande ombra, vasta come una nuvola di temporale. Ecco la debolezza intrinseca del Giro di Francia di quest’anno, agli effetti della probità e della regolarità tecnica del suo risultato finale.

Al secondo posto si è piazzato Mario Vicini. In partenza era un individuale qualsiasi, poco visto e poco considerato da tutti. Al Colle d’Allos era la rivelazione del Giro di Francia, l’erede della corona cui Bartali aveva dovuto amaramente rinunciare. A Digne era maglia gialla. Dopo Digne diventò la figura popolare più interessante della corsa. Bastano questi trapassi per fare di Vicini il vincitore morale del Giro? La nostra ammirazione per il corridore dal pelo fulvo non arriva sino a questo punto. In montagna Vicini ha demolito Lapebie. In pianura Lapebie ha imbrigliato Vicini. Lapebie aveva a propria disposizione una squadra, Vicini esclusivamente le proprie gambe. Questo va a grosso vantaggio del corridore italiano. Ma Vicini, oggi come oggi, non è il corridore completo. La sua forza è assoluta, la sua elasticità relativa. Gambe e braccia, volontà ed attitudine alla fatica, ne fanno, in montagna, un leone. In pianura la sua pedalata verticale – tutta espressa in battuta e vigoria di stantuffo dall’alto in basso – gli toglie la leggerezza, la speditezza, la spontaneità di ritmo e di andatura che plasmano lo stile dei passisti e dei velocisti. Forse è un corridore cui difetta ancora l’esperienza della pista. Questo atleta che in montagna – sparito Bartali – ha sconfitto tutto il campo ed ha inflitto mucchi di minuti a Lapebie, non è riuscito a battere il francese nella prova individuale a cronometro. Il dispendio delle pure forze atletiche è stato superiore in Vicini che in Lapebie, ma quest’ultimo ha ricuperato in scioltezza e in armonia di pedalata. Il più agile ha battuto il più robusto. Lapebie, per noi, è il vincitore del Giro di Francia in pianura, Vicini il vincitore del Giro di Francia in montagna. Queste osservazioni, di disinteressato e obiettivo valore sportivo, non tolgono un’oncia d’oro al merito di Vicini. Il suo Giro di Francia è stato un miracolo di ardore, di intraprendenza, di coraggio, di forza. Vicini, in molti episodi, ha rievocato la figura di Ottavio Bottecchia”.

A questo punto crediamo che sia veramente giunto il momento di porre la parola fine alle rocambolesche vicende della corsa francese e lo vogliamo fare con il commento di Colombo: “Il 31° Giro di Francia è passato alla storia. Più o meno… allegramente nei confronti dei suoi organizzatori, ma è passato. Lo ha vinto quello strano uomo di Lapebie. Può darsi che gli sportivi francesi, dopo avere inscenato la cagnara che provocò il ritiro dei belgi, si sentano ora orgogliosi del risultato. Tutto è possibile nella famiglia e nell’atmosfera del Tour. Se i francesi sono fieri del successo del loro… correttissimo, disciplinato, ‘mite asso’ Lapebie, vuoI dire che hanno la scorza dura. Dovrete convenire con noi nell’osservare che il 31° Giro di Francia è finito miseramente. Di bello sul suo sfondo non vi furono se non Gino Bartali, gli assi della squadra belga e parecchi isolati. Di meraviglioso non vi rimase, ad un certo punto, se non Mario Vicini. Tutto il resto nebbia. E parecchie brutture. Vicini è stato la rivelazione del Tour. È stato il più forte e il più sano concorrente. Non conosceva l’ambiente e non sapeva nulla del percorso. Non parlava che romagnolo. Non aveva compagni fedeli. Vicini è stato un magnifico combattente, un bellissimo atleta, un vero campione. Le imprese, delle quali l’atleta romagnolo della ‘Ganna’ si è reso protagonista, ne fanno un degno esponente del ciclismo italiano” (“Guerin sportivo”, 27 luglio 1937).

Dopo due giornate di cielo plumbeo sulle pIaghe del Nord si corre la Charleville-Metz, una sgroppata di 161 chilometri lungo un percorso che è tutto un’altalena tra boschi e praterie. Non appena dato il segnale di partenza, una maglia grigia, cerchiata di verde, prende il largo: è Mario che fugge pancia a terra. Sul gioco delle rincorse e dei ricongiungimenti si forma una pattuglia di 12 corridori che nell’ultima fase della tappa si assottiglia ulteriormente. C’è odore di traguardo; Vicini agguanta chi cerca di evadere finché il colpo riesce all’italiano Generati che taglia il traguardo con una manciata di secondi sui compagni di fuga. Mario, giunto 9°, passa al 23° posto della classifica, riducendo di oltre 7′ il distacco da Bartali, Speicher, Maès. Nella “Gazzetta” aumenta lo spazio dedicato a “quel matto di Vicini”: “L’impresa di Generati non oscura l’impresa di Vicini. L’individuale italiano, infatti, è una delle figure dominanti della tappa. È stato lui che in partenza ha dato fuoco alle polveri, è stato lui che lungo il percorso ha impresso alla cadenza del gruppetto fuggitivo il mordente della vivacità e della risolutezza. Volete tutto Vicini in una sola battuta? Dopo aver fatto la spola un paio di volte tra il plotone pletorico che insegue sonnacchioso e la pattuglia elettrica che scappa, ci affianchiamo a Mario che è in terza o quarta posizione. È l’unico della tompagnia che sta a capo scoperto. Ha i capelli rossi e ci tiene. Dialogo. – Vicini, come va? – Vicini gira la testa e ci guarda. Il sudore che gli cola sul viso infiamma ancor di più i puntolini rossi della sua pelle tutta piena di efelidi. Fa un gesto, a mano destra spalancata, verso quelli di testa e dice: – Non tirano, questi vagabondi! – Guardiamo il tachimetro. Si va a più di quaranta e lui li chiama vagabondi. È una frase comica nella sua assurdità, ma rivela quello che ha nelle gambe il gagliardo e spassoso corridore romagnolo: dell’acciaio fuso. Ecco quello che ha. Non basta. È stato Vicini il corridore che nelle vicinanze del traguardo ha sventato i tentativi di fuga di un paio di stranieri, agevolando così lo scatto decisivo di Generati. Bravo e buon Vicini, hai il diritto di dividere col vincitore l’alloro della tappa. Generati l’ha vinta, Vicini l’ha preparata”. Nella Metz-Belfort (220 km) il caldo comincia a farsi sentire: fugge il tedesco Bautz, al cui inseguimento si pone Vicini con una pattuglia di belgi, svizzeri e francesi. Lungo la salita, quando la battaglia comincia a farsi rovente, Mario fora. Sulle rampe del Ballon, Bartali si produce in un brillante inseguimento: ad uno ad uno rimonta una trentina di corridori. Vicini è 15° in classifica generale. Con la Belfort-Ginevra (302 km) iniziava la serie di quelle tappe multiple che avrebbero costituito la croce dei partecipanti; questa comprendeva ben tre frazioni, di cui due in linea ed una – l’intermedia – a cronometro per squadre. Era veramente chiedere l’impossibile ai corridori che in quella rovente domenica di luglio si alzarono alle 4.00 per disputare la prima parte in linea di 175 chilometri; alle 11.45, circa mezz’ora dopo essere arrivati, li attendevano 34 chilometri a cronometro con una lunga salita iniziale; ancora mezz’ora di riposo e poi gli ultimi 93 chilometri in linea con la scalata della Faucille. Il gran dispendio di energia muscolare e nervosa non portò vistosi mutamenti in classifica: Vicini, costretto a correre la cronometro in una squadra di isolati che di tutto avevano voglia tranne che di faticare, guadagnava 3 posizioni in classifica ma vedeva aumentare i minuti di ritardo. Era a 19’57” da Bautz e a 7’30” dal primo degli isolati, il belga Braekenveldt. A Ginevra, prima giornata di riposo in attesa delle difficili salite alpine, Mario cambiò la forcella della bicicletta: ormai erano finiti gli sconnessi lastricati del Nord e si poteva montarne una più leggera. Il corridore romagnolo poteva ritenersi soddisfatto dell’andamento della corsa: era 12°, con un distacco elevato ma non irrecuperabile ed aveva messo in evidenza buone qualità di fondo.

La Ginevra-Aix Les Bains (180 km), prima delle tappe alpine, non determina selezione. I corridori hanno visto profilarsi la tetra vetta del Galibier, il tetto del Tour, che domani li attende. Bautz conserva l’insegna del primato, Bartali riconquista il terzo posto, Vicini, vittima anche oggi di una foratura, è 11°. Ed eccoci alla durissima Aix Les Bains-Grenoble (288 km) che comprende la scalata del Col du Telegraphe (1.403 mt) e del Galibier (2.658 mt), cime da fare “tremar le vene e i polsi”. Il caldo è soffocante; sino ai piedi del Telegraphe l’andatura è modesta, poi iniziano i primi scatti e fugge l’individuale francese Gallien che precede un terzetto formato dallo spagnolo Berrendero, dal belga Lowie e da Vicini; Bartali e Maès sono a 2’30”; la maglia gialla, in piena crisi, accusa un distacco superiore ai 10′. All’orizzonte si profilano le creste del Galibier ancora coperto di neve. La strada sale, sale sempre, senza tregua; mancano alla vetta una quindicina di chilometri quando Bartali scatta e, scrollatosi da ruota il tenace Maès, si getta all’inseguimento del terzetto che, a sua volta, rincorre Gallien. I corridori vengono raggiunti: Lowie boccheggia, Berrendero abbozza un tentativo di difesa ma Bartali e Vicini se ne vanno. All’improvviso si mette a piovere; il fondo della strada peggiora continuamente, diventa stretto, malagevole, pantanoso. Improvvisati torrentelli trascinano ghiaia e fango; bisogna procedere sui solchi tracciati dalle ruote delle automobili. Le fisionomie dei corridori vengono cancellate da una maschera di fango; di vivo resta soltanto il rosso fiamma dei capelli del corridore romagnolo che resiste agli attacchi del toscano. Alternandosi al comando, i due italiani guadagnano terreno ai vista d’occhio; i belgi con Maès sono a più di 4′ ma Vicini si vede appiedato da una prima foratura. Bartali, ormai solo, supera Gallien e passa primo sotto lo striscione del traguardo della montagna; a 1’14” è Gallien, Vicini a 2’31”. Dopo un quarto d’ora non è ancora passato un certo Lapebie di cui avremo occasione di parlare più innanzi. Nella discesa Mario si tuffa all’inseguimento di Bartali ma la disdetta si accanisce contro di lui, fora infatti altre due volte; evidentemente i tubolari che gli passa, come isolato, l’organizzazione francese sono di pessima qualità. Lo superano così diversi corridori fra cui lo stesso Lapebie vistosamente aiutato dalle macchine al seguito; l’infrazione gravissima avrebbe richiesto una penalizzazione di tempo ma i commissari si limitarono a multare il francese di 100 franchi, decisione questa che trovò uniti nella protesta belgi e italiani. Al traguardo Bartali vinceva per distacco su Camusso e Lapebie, Vicini giungeva 11° a circa 8′. Il toscano vestiva la maglia gialla con oltre 9′ su Vissers; Vicini era 9° con 19’06”, Lapebie al 12° con 23’55”. Bartali, ben spalleggiato da Camusso nell’ultima parte della tappa, aveva compiuto una grande impresa ma notevole era stata anche la prestazione di Mario. Lo metteva in rilievo la “Gazzetta”: “Vicini forerà tre gomme, l’ultima a pochi chilometri dal traguardo. Scorrete ora l’ordine d’arrivo e pescate l’eccellente posizione conquistata dal rosso romagnolo. Vi accorgerete subito che ha disputato una tappa eccezionale. Il Giro di Francia sta laureandolo tra i più forti e intelligenti corridori europei”. Per quanto favorevole alla squadra italiana era stata la tappa di Grenoble, altrettanto infausta risulterà la Grenoble-Briançon (194 km) a causa di un incidente che danneggerà irreparabilmente il leader della classifica. Eppure la tappa era cominciata sotto i migliori auspici; sulle prime rampe della salita di Laffroy Bartali aveva forzato l’andatura e fatto selezione; l’erta di 7 chilometri era severissima, con una pendenza media del dieci per cento. Nella discesa la strada, dopo una brusca svolta a sinistra, diviene strettissima e attraversa un torrente, il Calau. Sul ponticello di pietra, Rossi, che è in testa, slitta e va ad urtare violentemente contro il parapetto ferendosi in diverse parti del corpo. Bartali, che lo segue, scarta bruscamente ma l’improvvisa sterzata proietta la maglia gialla contro il parapetto opposto e gli fa compiere un volo pauroso nel sottostante torrente. Nel trambusto il furgoncino che porta le macchine di ricambio si arresta di colpo e l’isolato Simonini vi sbatte contro riportando una ferita alla testa. Bartali si rialza penosamente; è tutto inzuppato d’acqua e la mano destra gli sanguina. Lamenta dolori al fianco destro e alla spalla; aiutato dal fedele Camusso riparte. Giungerà al traguardo a 11′ dal vincitore Veckerling ma riuscirà a conservare la maglia gialla. Vicini, che era rimasto nelle posizioni di testa durante tutta la tappa, giunge terzo all’arrivo e passa 7° in classifica a 12’10” dallo sfortunato toscano. L’indomani si correva la Briançon-Digne (220 km), la più terribile delle tappe alpine, comprendente l’Izoard, il Vars e l’Allos. Fin dalla partenza i belgi scatenarono l’offensiva buttandosi in una fuga indiavolata; il colpo era sferrato contro Bartali che, sofferente per la caduta e il bagno gelato del giorno innanzi, si trovò subito in difficoltà. I belgi tiravano come dannati senza tuttavia riuscire a liberarsi di Vicini, per nulla intimorito dall’attacco guidato da Maès. In vetta all’Izoard, primo era lo spagnolo Berrendero con una manciata di secondi su Verwaecke, Vissers, Maès e Vicini; Lapebie passava a 2’50”, Bartali a 3’55”. Nella discesa Mario forava e dopo aver cambiato il tubolare si gettava a capofitto alla rincorsa dei primi. “La discesa dell’Izoard è un folle rotolamento della mulattiera militare, fangosa e ghiaiosa, feroce per le sue curve a dietro front, precipitosa per i suoi dislivelli. Vicini l’ha presa a rompicollo. Non s’è messo a rincorrere. Ha fermato il motore e ha picchiato con un apparecchio d’alta acrobazia. Lo ripigliamo in basso, nella serpeggiante ed agevole via della vallata. Ride, ed è tutto rosso. È una tappa di salti mortali. I corridori dopo essere piombati giù dall’Izoard, assaltano immediatamente il Colle di Vars. Neanche il tempo di respirare. È una tappa da forzati della strada. Il panorama è selvaggio, dalle vette nevose sibilano lunghe e gelide raffiche di vento”. (“La Gazzetta dello Sport”, 10 luglio 1937). In vetta passano in cinque: Vissers, Maès, Lowie, il lussemburghese Mersch e Vicini che proprio al valico deve nuovamente fermarsi per cambiare una gomma avariata. Il ritardo di Lapebie è salito a 4’11”, quello di Bartali a 8′. Durante la discesa il romagnolo si riporta nuovamente sui primi e con essi attacca il Colle d’Allos: “La salita è lunga una ventina di chilometri. Al decimo Vicini dà uno sguardo sospettoso a Maès che gli succhia la ruota, e parte di slancio. La breve fila indiana si scompone. È come scuotere un alberello carico di frutti maturi. L’ultimo che resiste è Maès. Raggomitolato sulla bicicletta, in una tensione selvaggia delle sue energie, sembra uno gnomo. Resiste cento, duecento metri. Non resiste più. Mario Vicini va via tutto solo. In questo momento incomincia uno dei capitoli inediti del Giro di Francia. C’è un individuale – un corridore senza amici e senza aiuto, senza squadra e senza soldi – che parte alla conquista della maglia gialla. Dice Goddet che non è mai successo. Vicini monta i gradini del Colle con regolarità sorprendente. Non si volta neppure indietro per vedere dove sono i suoi avversari. Si sente bene e si sente forte. Gli scorriamo ai fianchi. Gli vociamo nelle orecchie che sta prendendo due piccioni con una fava: il primato fra gli individuali e, forse, la maglia gialla. – Ma va là… – risponde e ingolla lunghe sorsate d’acqua. Nasce una delle imprese più singolari e clamorose del ciclismo. Si rivela agli occhi degli esperti di nove Nazioni – tante sono le squadre rappresentate nel Giro di Francia – un atleta d’incomparabile vigoria. Sul libro d’oro del ciclismo internazionale un ragazzo romagnolo – oscuro pochi mesi or sono – iscrive il suo nome. Quando mancano alla vetta due chilometri e i rabbiosi inseguitori sono lontano meno di due minuti, Vicini riparte di scatto e passa sulla cima con 2’56” di vantaggio sul quintetto dei belgi: Maès, Vissers, Disseaux, Lowie, Verwaecke. Cinque che possono assistersi ed aiutarsi a vicenda e uno che non può chiedere niente a nessuno se non a sé medesimo. Cinque coalizzati per stroncare Bartali ferito e uno solo per vendicarlo. La storia del Giro di Francia non dimenticherà questa avventura. In essa non palpita soltanto un gioco strenuo e vittorioso di muscoli. In essa è un insopprimibile alito romantico. Alla vetta del Colle, Bartali ha perduto la maglia gialla. Alla vetta del Colle, Vicini conquista la maglia gialla. Il capitano soffre lungo le svolte, mentre il soldatino con una maglia qualunque, di colore grigio, il soldatino non immatricolato in nessun plotone, il soldatino romagnolo, canta il suo inno”. Tenendo conto dei 2’56” di abbuono in vetta all’Allos, Vicini era virtualmente maglia gialla con 25″ sul belga Maès. Mancavano ancora 80 chilometri al traguardo e Mario si rese conto dell’impossibilità di giungere solo a Digne. Una lunga fuga avrebbe potuto sfiancarlo a vantaggio dei belgi che incalzavano alle spalle. Perciò preferì rallentare e rifocillarsi, venendo raggiunto dalla pattuglia belga a cui si erano accodati i francesi Gallien e Lapebie. Quest’ultimo aveva portato a termine l’ascensione dell’Allos, aiutato da una catena di spinte apertamente richieste. I belgi, scattando a turno, tentarono di scrollarsi di dosso Vicini che però tenne duro finché a 30 chilometri dall’arrivo era Lapebie a piantare in asso la compagnia. La fuga del francese costituirà un punto nodale non solo della tappa ma del Tour. Vicini pensava che fossero i belgi ad organizzare l’inseguimento, ma costoro non forzarono l’andatura ritenendo il francese non troppo pericoloso; d’altra parte il cesenate, che aveva in Maès il suo diretto avversario, si limitò a controllarlo. Così Lapebie giunse a Digne con tre minuti e mezzo di vantaggio aggiudicandosi inoltre 1’30” di abbuono. Mario era 5°, Bartali concludeva il suo calvario con 23′ di ritardo. Al traguardo si fanno calcoli febbrili, poi l’altoparlante annuncia che Vicini è la nuova maglia gialla del Tour: “La stupefazione, la meraviglia dell’atleta sono commoventi. Il vincitore morale della tappa si guarda in giro come se si stupisse di trovarsi sulla terra. Forse crede di sognare”. È un momento di grande emozione: i giornalisti si precipitano al telefono mentre i radiocronisti trasmettono che l’unico isolato italiano rimasto in gara ha conquistato le insegne del primato. Un’ora dopo, in albergo, il colpo di scena: i commissari, spulciando i loro quaderni neri, rilevavano che nella tappa precedente a Vicini era stato inflitto un minuto di penalizzazione “per aver ricevuto da bere da una vettura al seguito della corsa”. Era ammesso il rifornimento lungo la strada da parte di sportivi, ma non che una vettura ufficiale porgesse acqua ad un cristiano assetato che da ore e ore soffriva in bicicletta. Per un sorso d’acqua si toglieva a Vicini la maglia gialla! Ma ben più grave era il fatto che il corridore non fosse stato avvertito della penalizzazione alla partenza; infatti, sapendolo, avrebbe potuto dare un’altra impostazione alla corsa. In realtà a Briançon non si era detto nulla della punizione perché nessuno supponeva che Vicini, povero isolato, sbaragliasse nella durissima tappa dei tre colli alpini ogni avversario. Lo si considerava ancora una figura di rincalzo con cui ci si poteva permettere anche questo genere di scorrettezza. A tarda sera, in seguito alle giuste proteste degli italiani, i commissari decisero di assegnare a Vicini i premi spettanti al primo in classifica ed una maglia gialla a titolo d’onore da indossare per la tappa successiva. In classifica Mario era a 35″ da Maès; Lapebie passava al 3° posto a 1’22”. Con lui il comportamento della giuria era stato ben diverso: nonostante le spinte sollecitate e ricevute e quantunque fosse stato visto farsi trainare da una vettura, non venne neppure multato! A Digne, seconda giornata di riposo, i 62 superstiti del Tour ritemprarono le forze in attesa dell’ultima tappa alpina. Vicini si riebbe dalle emozioni del giorno precedente ma in campo italiano non si era ancora digerita la palese ingiustizia perpetrata nei confronti dell’isolato: “Che importa se dieci e dieci vetture, attente a non farsi cogliere dai gendarmi dell’organizzazione, hanno offerto ai corridori in ritardo bottiglie d’acqua, e banane, e uova e pesche? Cosa importa, se i trasgressori del regolamento hanno avuto l’accortezza di non farsi pescare, aspettando il risvolto d’una curva, la spalletta d’un ponte? Tu sei stato visto, buon Mario Vicini. E il minuto di penalizzazione – un niente, a pensarci, nel groviglio dell’ora che compone e scompone la classifica generale – t’è venuto addosso come il vaso di fiori sulla testa del nasuto Cirano. Mettilo in quadro, il minuto di penalizzazione. Scrivici sotto la tua firma, e offrilo al samaritano che ti ha dato umanamente, storditamente, da bere. Per una caduta e un poliziotto pietoso Dorando Petri ha perso una maratona, ma l’ha persa triofando. Per una gola rovente e un sorso d’acqua illegittimo Mario Vicini ha perso la maglia gialla, ma l’ha persa trionfando” (“La Gazzetta dello Sport”, 11 luglio 1937).

Alla partenza della Digne-Nizza (251 km) ultima delle tappe alpine, fatto nuovo ed unico nella storia del Tour, due atleti vestivano la maglia gialla. La scena si presentava grottesca così come grottesco era stato il comportamento della giuria. Vicini, nonostante i ripetuti attacchi sferrati dai belgi, non concesse a Maès neppure un secondo. Sulle rampe del Braus venne urtato dallo spagnolo Ezquerra e si dovette fermare per oltre un minuto a rimettere a posto il tubolare sgusciato; i belgi, passatasi la voce, accelerarono il passo ma in quattro chilometri, discendendo come solo lui sapeva fare, Vicini agguantava i fuggitivi: “Dovreste vederlo in discesa: se la strada è diritta fa il riccio sulla sella, si arrotola e viene giù applicando a se stesso la regola della forza di gravità. La nostra vettura, a settanta, non lo piglia. Ma se la strada disegna una curva, Vicini, sbandando tutto su un lato, sembra la vela gialla di un panfilo percorso e piegato dal maestrale. Uno spettacolo d’acrobazia da chiudere gli occhi e da tapparsi le orecchie nel timore di udire l’urlo della catastrofe”. Mario fu ugualmente deciso nell’affrontare le salite della giornata: “Snello, asciutto, tutto muscoli longilinei, tutto elasticità nella pedalata, parrebbe tagliato apposta per le corse veloci. E invece la struttura atletica si trasforma quando la strada s’arrampica. Le gambe del corridore diventano stantuffi d’acciaio, le sue spalle spalancate in pianura s’incurvano e si raccorciano. La punta del piede s’inchioda nella pedaliera, i gomiti si serrano al torso. Vicini non dà mai l’impressione dello sforzo e sembra sempre che egli salga in perfetta armonia di ritmo”. La tappa non portò mutamenti in classifica e si concluse con la vittoria del belga Verwaecke; Vicini giunse 5°, Bartali sembrò dare qualche segno di ripresa. Emilio Colombo si esprimeva in termini lusinghieri nei confronti del corridore romagnolo, a suo dire uno dei più validi in campo: “Vicini è un pioppo. A Grenoble, dopo quella terribile tappa, aveva le labbra tumefatte dalla febbre. Non ha accusato nessuna debolezza. Atleta dai mezzi poderosi, Vicini s’è fatto strada da sé. Ha dovuto battersi con il cuore in gola, nelle prime tappe. Non ha avuto fortuna. Pesante e impetuoso – è alto 1 metro e 80 e pesa 78 kg – buca sovente. Si è ambientato con rapidità sconcertante. Si spiega a gesti. E si è fatto conoscere attraverso l’eloquenza delle dimostrazioni pratiche. In alcune tappe è stato il concorrente più forte. È l’atleta tagliato per le prove a tappe. Durante le quali trova l’efficienza maggiore, la sicurezza migliore, l’impeto, la convinzione e l’autorità del campione autentico. Ha lavorato molto, da Parigi a Nizza. Sarà handicappato nelle tappe a cronometro non individuali. Ma è già la rivelazione del Tour” (“Guerin Sportivo”, 13 luglio 1937). Dopo il giorno di riposo trascorso a Nizza, il 13 luglio si riparte alla volta di Marsiglia; la tappa è divisa in due frazioni: Nizza-Tolone, 169 chilometri in linea, e Tolone-Marsiglia, 65 chilometri a cronometro per squadre. Si corre sotto il cielo azzurro della Provenza in un clima torrido. La prima semitappa non apporta mutamenti in classifica. Nella seconda frazione il regolamento è contro Vicini che viene incluso in una squadra di individuali belgi e francesi che non volevano certo rendere difficile la vita ai loro connazionali. Mario si battè come un leone ma, a 15 chilometri dal traguardo, dovette fermarsi a cambiare un tubolare forato; fu costretto allora a inseguire da solo la sua squadra con uno sforzo veramente sovrumano: “Quei quindici chilometri Vicini non li percorse. Li volò. Arrivò a Marsiglia nella scia della sua squadra occasionale. Entrò nello stadio come una palla da schioppo. Quando smontò dalla bicicletta, tutto nero per il catrame che a pulviscoli infuocati volteggiava sulla strada riarsa dal sole di luglio, non domandò di Vissers, ma di Maès. Seppe il tempo della squadra belga. Controllò il proprio. Si limitò a dire che, con compagni più risoluti, avrebbe potuto fare di meglio e di più. Non si lamentò e non imprecò. Vicini è di quelli per i quali conta meno il regolamento che la bicicletta. Vicini ha veramente ‘l’anima del Giro’, quel saper soffrire, quel saper accettare, quel saper aspettare nei quali si compendia e si plasma il combattente della strada”. In questa occasione Camusso coniava per il corridore romagnolo l’appellativo di “freccia di rame”. La tappa venne vinta dalla fortissima squadra belga che correva al completo e Maès poté così consolidare il suo primato; 2° in classifica era Lapebie a 2’53”, 3° il belga Disseaux, Vicini retrocedeva al 4° posto a 5’48”. Bartali, non ancora rimessosi dai postumi della caduta, decideva di ritirarsi. Unica consolazione per Vicini, il cospicuo premio di 5.000 franchi in palio a Marsiglia per il primo degli isolati; veramente il nostro non vide mai quel denaro, probabilmente intascato dalla Federazione per pagare le spese di albergo del corridore cesenate. La tappa a cronometro per squadre aveva messo in evidenza l’assurdità del regolamento: “Abbiamo questo. Che un Mario Vicini, degno emulo dei fortissimi belgi, s’è visto prendere per il petto e ricacciare indietro, nei meandri della classifica, in un posto che non è affatto suo. È stato, sotto questo aspetto, sconfitto Vicini o è stato sconfitto lo sport? La risposta non è dubbia. Ma il commissario tecnico dei belgi non l’ha proclamato l’atleta più pericoloso per i suoi straordinari ragazzi? Non ha detto che, sotto il rullo compressore dei belgi, soltanto Vicini ha dimostrato di avere la pelle del rinoceronte? È un individuale, ragione di più per ammirare la sua corsa. È un individuale, ragione di più per alleviare sulle sue spalle il peso dell’isolamento. Niente. Il regolamento è draconiano. L’atleta che è riuscito ad intrufolarsi, a prezzo di distacchi in salita, nella compagnia ferrea dei belgi, è fatto partire coi corridori che tutte le mattine accendono lo stoppino dei fanali di coda. Ne risulta che Vicini è battuto in partenza, battuto due volte. Battuto perché gli manca la possibilità di lottare da pari a pari coi suoi avversari diretti. Battuto perché viene incluso in una squadra che comprende tre individuali belgi, amiconi – ed è naturale ed umano – di quel Vissers che punta alla vittoria di categoria” (“La Gazzetta dello Sport”, 14 luglio 1937). In seguito alle numerose rimostranze, Desgrange, avvalendosi del suo leonino regolamento, decise di abolire le tappe a cronometro per squadre e individuali fino a Bordeaux, adducendo che erano state preventivate nel timore che i corridori mancassero di combattività, mentre i continui arrivi frazionati avevano dimostrato il contrario. Questa decisione suscitò le proteste della squadra belga che, forte ancora di ben nove unità in piena efficienza, aveva nelle tappe a cronometro la carta migliore del suo gioco. Desgrange, fingendo di andare incontro alle richieste degli isolati, faceva in realtà un grosso favore a Lapebie rimasto capitano della diroccata squadra francese. Le due successive semitappe Marsiglia-Nimes (112 km) e Nimes-Montpellier (51 km) si svolsero a 40 gradi all’ombra, l’asfalto pareva lava fusa. Vicini, che aveva rosicchiato 35″ a Maès appiedato da una foratura, passava al 3° posto. Niente di nuovo neppure nelle due semitappe Montpellier-Narbona (103 km) e Narbona-Perpignano (63 km).
A Perpignano, riposo in attesa delle tappe pirenaiche; Vicini ne approfittò per smaltire la fatica accumulata nelle giornate precedenti e per studiare un po’ l’altimetria dei Pirenei, le montagne che, forse, avrebbero laureato il vincitore del Tour. Il campione romagnolo era fiducioso nei suoi mezzi, pur non facendosi soverchie illusioni: “Le condizioni di salute del corridore sono eccellenti. Sulle labbra ha un residuo di febbre, ma la sua muscolatura e il suo spirito sono sani ed integri. Vicini ha l’anima del corridore coniato alla zecca del Giro di Francia. Nella valutazione degli avversari e del rischio è freddo, paziente ed accorto. Non ostenta programmi di sorta, ma neppure maschera il suo orgoglio. Vedetelo in corsa. Non c’è mai pericolo che si barcameni, che si sbandi, che si perda nelle posizioni della retroguardia. Viaggia sempre nelle ruote dei primissimi, in quarta e quinta posizione. E quando qualcuno scappa alla disperata, con un fulmineo colpo d’occhio ne controlla la sagoma e il numero. Sa subito se deve partire alla caccia o se è sufficiente stare in guardia. Ha scritto a casa sua una lunga lettera; ha scritto che sarebbe contento di arrivare a Parigi nei primi cinque e di vincere la categoria degli individuali. E spera che le gomme lo risparmino, dopo averne bucato nove dall’inizio del Tour”.

La prima tappa pirenaica, Perpignano-Luchon (323 km), era stata divisa in tre frazioni; c’era da sottoporre la classifica, tuttora incerta, al vaglio delle montagne. Levataccia quindi alle tre del mattino per partire un’ora dopo alla luce dei fari delle automobili. La prima frazione, con arrivo a Bourg Madame, vede la vittoria di Meulemberg sul plotone pressoché compatto; Vicini si piazza al 3° posto. È lo spagnolo Canardo ad aggiudicarsi la seconda frazione ad Aix-les-Thermes ed è ancora Meulemberg a sfrecciare al traguardo di Luchon. Vicini aveva attaccato ripetutamente sulle non difficili asperità del Port e del Portet senza tuttavia riuscire a sorprendere Lapebie e Maès. In discesa il cesenate era caduto ferendosi a un piede ma dopo una sommaria fasciatura aveva raggiunto il gruppo di testa. Un giornalista francese, spettatore di quell’incidente, ebbe a scrivere il giorno dopo: “Quello è un uomo d’acciaio!”. Oltre dodici ore trascorse in sella non avevano apportato alcun mutamento nella classifica. La stampa esaltava la combattività dell’atleta romagnolo che di giorno in giorno diveniva sempre più popolare in Francia; già gli organizzatori delle riunioni su pista se lo disputavano. “Vicini attacca, attacca sempre. Attacca in piano, in discesa, in salita. La sua maglia grigia, con la fascia verde, e quella sua testa da birillo rosso tu le vedi sempre all’avanguardia del gruppo. Non gli importa di sapere che, se buca una gomma, tutti gli saltano addosso mentre potrebbe sgusciare via inosservato se s’accontentasse di pedalare nel centro del gruppo. Ha in corpo una gioia, una esuberanza di salute che meravigliano i suoi stessi antagonisti. Quale è stato, oggi, il corridore che sull’uno e sull’altro colle ha tentato di piantare in asso il gruppo? Vicini, nient’altro che Vicini. Egli trova per ogni arrivo di tappa qualche nuova proposta di contratto per corse sui velodromi. Fa la sommetta grassa che ci vuole per tornare a Cesena col vestito nuovo, un libretto da firmare alla banca e una penna da mettersi sul cappello”. Nella giornata di riposo a Luchon si tirano le somme: Maès capeggiava la classifica con 2’18” su Lapebie e 5’13” su Vicini. Il francese, scarsamente dotato in salita, era però finora riuscito sempre a rientrare, sia pure andando ben oltre illecito. Il romagnolo aveva un distacco superiore ai 5′, ma sarebbe bastato a mettere al riparo il belga dagli attacchi di quell’arrampicatore di razza? Jacques Goddet, redattore capo di “L’Auto”, scriveva a proposito: “Se vi è un corridore sicuro di sé, che non ascolta che se stesso, che non obbedisce che ai propri impulsi, è Mario Vicini, il fenomeno del Tour. Per me Vicini sarà l’attrattiva principale della corsa di domani e sono quasi convinto che egli costringerà tutti i corridori a sforzi terribili. Vedremo chi potrà resistergli”. Vicini, intervistato da un corrispondente de “Il Corriere padano”, affermava: “Non mi faccio illusioni. Maès sta bene. È fresco e in forma ed ha soprattutto il morale di chi porta la maglia gialla. In più ha a disposizione uno squadrone nel quale Verwaecke è l’uomo che va più forte di tutti noi in salita. lo però, da buon romagnolo, non mi darò per vinto senza avere prima sparato tutte le mie cartucce. Adotterò la stessa tattica che mi fece guadagnare… metà della maglia gialla nella tappa di Digne. Attaccherò, ben disposto ad avanzare in classifica o anche, nella peggiore delle ipotesi, a retrocedere. Non c’è via di mezzo. Bisogna dare battaglia e la darò. Personalmente ho l’idea che Maès resisterà, ma non lascerò nulla di intentato”. L’indomani i 56 corridori rimasti in gara partono da Luchon alla volta di Pau (194 km); è l’ultima tappa di montagna, nel cui itinerario sono compresi i giganti dei Pirenei: il Peyresourde, l’Aspin, il Tourmalet e l’Aubisque. Sono 70 chilometri di salite con pendenze micidiali su strade dal fondo sterrato.

La squadra belga attacca fin dalla partenza, il commissario tecnico Steyaert si è posto quattro obiettivi: maglia gialla per Maès, Gran Premio della montagna per Verwaecke, primato degli individuali per Vissers e la vittoria nella classifica per nazioni. Gli obiettivi sono ambiziosi ma il commissario può contare sull’efficienza e la disciplina della squadra. Sul Peyresourde (mt 1.545) passa Berrendero con pochi secondi sui belgi; Vicini, che accusa dolore al piede ferito, è a 1’55” e Lapebie a 2’07”. Sul Col d’Aspin (mt 1.189) lo spagnolo è ancora primo, Vicini transita 8° a 4′ 15″ con lieve vantaggio su Lapebie. La discesa è lunga, difficile e pericolosa, e presto arriverà il terzo gigante della giornata. In discesa Mario comincia a recuperare, poi nell’interminabile salita del Tourmalet (mt 2.122) la sua azione si fa più decisa: “Lungo la strada incisa a mezza costa, la sagoma di un corridore che arranca all’inseguimento. È una sagoma nota. È un corridore che sale strappando il manubrio a destra e a sinistra con un ritmo violento e cadenzato. È Mario Vicini; l’aspettiamo, lo cronometriamo. Ha più di tre minuti di ritardo sul quartetto che sale. È solo. È tutto sospeso sui pedali e li spinge con una lenta ma inesorabile rotazione delle gambe. La sua bicicletta, nell’ascesa implacabile, disegna un’onda continua, ma la ruota non rallenta mai, non cede mai. Vicini è nella pienezza della sua forza fisica. Gli si è screpolata la crosta che i postumi di febbre avevano formato sul suo labbro inferiore. Sanguina. Si lecca il sangue, e ha il mesto sorriso dell’uomo impegnato in uno sforzo crudele. L’inseguimento di Vicini è ostinato, pacato, irresistibile. Per ogni pedalata abbatte un secondo del distacco che lo separa dai primi”. Sulla cima Vicini è 5° a 1’41” da Berrendero e dalla pattuglia belga ridotta ai soli Maès, Verwaecke e Vissers; il ritardo di Lapebie ammonta a quasi sei minuti. In discesa il romagnolo acciuffa i fuggitivi; Verwaecke quando se lo vede accanto fa un gran gesto con una mano spalancata ed esclama: “Le diable touge est arrivé”. Il diavolo rosso è arrivato per davvero; l’orgoglioso castello costruito dai belgi vacilla, 80 chilometri di fuga non sono serviti a nulla. Lungo il tratto ondulato che collega il Tourmalet all’Aubisque rientra anche Lapebie ma Vicini, che pare avere il fuoco nelle gambe, opera scatti su scatti finché riesce a piantare in asso i suoi rivali: “Allorché la strada diventa impossibile e si profila all’orizzonte la cupola nera dell’Aubisque e gli ultimi alberi scompaiono e non v’è che sole e arsura, coraggio e sofferenza, Vicini tenta la sua radiosa sorte nel Giro di Francia. Scatta, si stacca, fugge. Soltanto Berrendero, in uno spasimante richiamo delle estreme energie, l’insegue. Gli altri squassati. Vicini è solo, solo alla conquista della vetta romantica e diabolica. Come per una favolosa gara a staffetta, Vicini ha raccolto il bastone del primato che Bartali, lo scalatore del Galibier, gli ha affidato. Galibier e Aubisque, i tetti del Tour. Galibier e Aubisque, i nomi oscuri e svettanti dei racconti misteriosi che i ‘vecchi’ del Giro recitano ai ragazzi delle fresche generazioni, abbassando la voce. Galibier e Aubisque, segni di nobiltà atletica del Giro di Francia, sfide erculee lanciate da Desgrange ai forzati della strada. Galibier e Aubisque, alfa e omega della disumana impresa. Galibier e Aubisque: Gino Bartali e Mario Vicini”.
Sul culmine dell’Aubisque Vicini precede di 16″ Berrendero, Maès è a 2’19”, gli altri seguono con distacchi vistosi. L’italiano si butta giù per la discesa a rompicollo, senza badare alla ghiaia, alle scanalature, alle buche, alla polvere che tormentano la strada. Se le forze lo sorreggono, se la fortuna lo assiste, a Pau lo attende la maglia gialla; mancano 57 chilometri all’arrivo, 30 dei quali in discesa. La sua destrezza in discesa è famosa, quasi leggendaria; al Tour fra i corridori di tutte le favelle si parla con ammirazione del discesista romagnolo. Dopo 10 chilometri il vantaggio su Berrendero è salito a 2′, gli altri sono lontani, il cesenate appare l’arbitro della situazione, ma ecco la decima foratura tarpare le ali al bel sogno di vittoria. Berrendero supera come un lampo lo sfortunato corridore intento a sostituire il tubolare; gli sconfitti Maès e Lapebie lo raggiungono: “Deve accodarsi alla pattuglia. Deve oscillare nelle ruote altrui fino al traguardo. Il dominatore dell’Aubisque deve rassegnarsi alla gelida legge della malasorte. I dadi gettati in aria nell’ultima e decisiva partita della giornata hanno tradito l’atleta italiano proprio nel momento in cui l’anelito alla vittoria stupenda ha gonfiato il suo petto, illuminato il suo sguardo” (“La Gazzetta dello Sport”, 20 luglio 1937). Al traguardo Berrendero è primo con 49″ su Lapebie; Vicini giunge 4°. Le emozioni della giornata non erano ancora finite: il commissario belga infatti sporgeva reclamo nei confronti di Lapebie che lungo la salita del Tourmalet era stato visto attaccarsi a macchine del seguito per ben dieci volte e nella scalata dell’Aubisque aveva usufruito di un servizio organizzato di spinte, una vera e propria “funicolare umana”. Si spiegava così come il francese avesse potuto neutralizzare il pesante distacco e rientrare nella pattuglia dei primi. Un equo verdetto della giuria avrebbe dovuto mettere Lapebie fuori gara ma neppure questa volta lo si volle punire come meritava: c’era di mezzo l’orgoglio nazionale e i giurati si limitarono ad infliggergli la ridicola penalizzazione di 1’30”. Era il colmo; tanto più che il francese, intervistato alla radio, minacciava di ritirarsi se non veniva amnistiato, con lo scopo evidente di creare un clima di tensione soprattutto nella Gironda, sua regione natale, sede di arrivo della prossima tappa. La nuova classifica generale risultava quindi la seguente: 1° Maès, 2° Lapebie a 3’02”, 3° Vicini a 4’57”. Il giorno di riposo a Pau fu avvelenato dalle polemiche: Lapebie furibondo (oppure faceva la commedia?) per la tenue penalizzazione aveva accusato Maès di essersi fatto attendere dall’isolato belga Vissers ma si era visto respingere il reclamo in quanto infondato. L’atmosfera era sovraeccitata, lo stesso Desgrange appariva molto preoccupato per la piega assunta dagli avvenimenti. I corridori italiani, rimasti estranei alle vivaci discussioni, trascorsero una giornata tranquilla recandosi nella mattinata a visitare la grotta e il santuario di Lourdes. La stampa metteva in evidenza la bella se pur sfortunata prova di Vicini: “Nella tappa vertice del Giro di Francia il corridore romagnolo è stato, virtualmente, il padrone del campo. Vicini è stato il corridore che ha sventato l’orgoglioso piano dei belgi. Quando li ha raggiunti e scavalcati sull’Aubisque non s’è limitato a dimostrarsi l’arrampicatore tipo del Giro, il successore di Bartali. Ha paralizzato, lui solo, l’offensiva scatenata dalla squadra belga. Senza la disgraziata foratura, ed è Desgrange a dirlo, avrebbe potuto conquistare la maglia gialla” (“La Gazzetta dello Sport”, 21 luglio 1937).

Di solito il Giro di Francia muore a Pau. I corridori superstiti, scavalcati i Pirenei, pigliano la strada di Parigi in pace. La classifica è sistemata, le ambizioni appagate, viene il momento della disintossicazione. Quell’anno invece c’era aria di tensione, si paventavano disordini. In questo clima surriscaldato prendeva il via la Pau-Bordeaux (235 km), tappa piatta ma particolarmente scabrosa per lo stato d’animo venuto a crearsi. I commissari, temendo gesti inconsulti da parte del pubblico, non seguirono la corsa, puntando direttamente su Bordeaux. Desgrange abbracciò il medesimo partito; tappa quindi senza commissari né direttore di corsa. Ben presto cominciarono le intemperanze degli spettatori nei confronti dei belgi; l’automobile del direttore tecnico della squadra belga venne assalita dalla folla e fu costretta ad abbandonare il percorso della tappa ed a proseguire per strade secondarie. La giornata era caldissima. Per ore si marciò a lenta andatura in una vera fornace. A circa 40 chilometri dal traguardo, Maès forava ed il gruppetto dei primi in classifica si involava a pieni pedali. Ben assistita dalla squadra, la maglia gialla si buttava all’inseguimento ma la pattuglia belga veniva fermata da un passaggio a livello appositamente chiuso dal casellante. I corridori scesi dalle biciclette furono fatti oggetto di insulti e villanie. Per il resto della tappa si lanciarono sabbia e pepe macinato in faccia ai belgi e si lacerarono le bandierine belghe poste sulle macchine al seguito. A Bordeaux il francese Paul Choque batteva in volata Lapebie ed un gruppo di cui faceva parte anche Vicini. In classifica generale Maès era ancora primo, Lapebie che aveva usufruito di 45″ di abbuono era a 39″, Vicini a 3’19”. Alla sera quei pavidi commissari che non avevano assistito alla corsa, con un’impudenza che rasentava la follia, infliggevano a Maès 15″ di penalizzazione per aver ricevuto aiuto nell’inseguimento da alcuni individuali belgi. Fu il colpo di grazia! Nella notte il direttore tecnico Steyaert radunò i suoi uomini e dopo un consiglio durato parecchie ore, i belgi annunciarono il loro ritiro dal Tour. Il giorno dopo il giornale sportivo belga scriveva: “Il desiderio della Francia sobillata è esaudito. Silvère Maès abbandona la corsa a Bordeaux lasciando la maglia gialla a Lapebie e ai suoi anti-sportivi scudieri. La squadra belga, defraudata dagli organizzatori, provocata dalla stampa partigiana, insultata dalla folla, si ritira dalla battaglia sportiva” (Sportwereld”, 22 luglio 1937). La situazione assumeva, inaspettatamente, una fisionomia tutta nuova. Sparito Maès che era stato con il corridore cesenate il protagonista della corsa, rimanevano in lotta per il primo posto Lapebie e Vicini, distanziati da 2’40”. Il francese appariva il favorito per diversi motivi: restavano tappe pianeggianti e Lapebie, più veloce del romagnolo, poteva usufruire degli abbuoni; l’atleta di Bordeaux aveva a sua disposizione una squadra, decimata sì, ma pur sempre valida per aiutarlo in caso di foratura; infine, fattore non trascurabile soprattutto alla luce di quanto era successo, correva in casa. L’italiano invece vedeva davanti a sé tutti i rischi dell’isolato; cosa poteva capitargli se in seguito a una foratura i francesi lo avessero attaccato a fondo? C’era il pericolo di perdere la seconda posizione: “Lapebie, ora che la montagna non c’è più e si va dondolando a Parigi, ha una squadra di passisti e di velocisti ai suoi comandi. È assicurato contro il rischio della foratura. E Vicini? Vicini è un individuale. Vicini è solo. Se buca, la gomma nuova deve adattarla sul cerchio personalmente e per l’inseguimento deve affidarsi soltanto alle sue gambe. Se mi butto a rompicollo – egli pensa – se profitto di ogni ondulazione del terreno per andarmene con le gambe in spalla, cosa mi succede, se una gomma mi tradisce? Ecco il ragionamento di Vicini che nella sua qualifica di individuale trova un freno al suo temperamento di combattente spericolato”. Con questi presupposti Vicini ritenne opportuno – e fu, secondo noi, decisione saggia e ben ponderata – accontentarsi del secondo posto senza tentare colpi di mano il cui successo sarebbe stato aleatorio per non dire impossibile. Giungiamo alle ultime tappe di questo Tour veramente rocambolesco. La Bordeaux-La Rochelle (227 km), divisa in tre frazioni, venne affrontata dai 46 corridori rimasti in gara dopo il ritiro della squadra belga. Il primo segmento di tappa fu appannaggio del tedesco Bautz che ebbe la meglio sul gruppo; Lapebie, giunto 2°, intascava altri 45″ di abbuono. Volata tumultuosa nella seconda frazione con vittoria a pari merito dell’individuale belga Braeckenweldt e del tedesco Wengler. Sull’ultimo traguardo irruppero Martano e Lapebie; pareva che l’italiano fosse riuscito a spuntarla ma i commissari sentenziarono che il francese era giunto primo. Così Lapebie usufruendo degli abbuoni era a 4’55” da Vicini. Il giorno successivo ebbe luogo La Rochelle-Rennes (253 km) divisa in due semitappe di cui la prima a cronometro per squadre. Vicini questa volta venne inserito coi superstiti della squadra italiana: Martano, Introzzi, Camusso e Romanatti. La corsa si risolse sul filo dei secondi; al traguardo, la squadra francese precedette gli italiani di soli 11”; cento metri di distacco in oltre 80 chilometri. Nulla di mutato nella seconda frazione vinta dal francese Choque. Una certa attesa suscitò la Rennes-Caen (173 km) soprattutto per la seconda frazione a cronometro individuale. Il sorteggio non favorì il nostro corridore, costretto a partire per primo e per di più, in qualità di isolato, senza macchina al seguito. Vicini si battè coraggiosamente giungendo 6° e concedendo a Lapebie soltanto 12″ in 59 chilometri. Alla sera però il ritardo del romagnolo fu aggravato da una penalizzazione di due minuti, inflittagli dai commissari per aver ricevuto una ruota da Romanatti: all’undicesima foratura Vicini si era ribellato, rischiando una punizione che poteva essere anche più grave. Senza storia l’ultima tappa, Caen-Parigi (234 km), una sorta di passerella alla volta del Parco dei Principi sulla cui pista giunse primo l’individuale belga Vissers. Poi la consacrazione di Lapebie, i rituali giri d’onore nel frastuono degli altoparlanti, delle fanfare, tra i clamori di una folla in delirio. Vicini divideva in 46 fette, quanti erano i corridori superstiti, un monumentale panettone arrivato fresco fresco dalla Motta di Milano. Nella classifica finale l’italiano era 2° a 7′ 17″, 3 ° lo svizzero Amberg a 26’13”. Vicini risultò 2° anche nella classifica del Gran Premio della montagna con 97 punti.

Sul XXXI Tour calava il sipario, il grande anello era chiuso.

Prima di formulare un giudizio finale crediamo sia opportuno fare alcune precisazioni alla luce delle quali sarà più facile inquadrare gli avvenimenti avvenuti. I corridori non sono né santi né eroi ma uomini quasi sempre venuti dalla povertà, lanciati alla conquista di una piccola fortuna economica da guadagnarsi al prezzo di fatiche massacranti e brutali. Il Giro di Francia è perciò un avvenimento in cui si rispecchiano le virtù e i difetti di questi uomini. C’è poi sempre il rischio che la folla degli spettatori, galvanizzata dalla lotta, dimentichi le leggi della passione sportiva, scatenando istinti che con lo sport nulla hanno a che vedere. Possono allontanare questo pericolo la lealtà di tutti gli atleti, l’efficienza dell’organizzazione e la fermezza della giuria. Quasi mai, invece, come nel 1937, vennero meno questi tre presupposti; così la passione popolare che voleva a tutti i costi la vittoria francese, dilagò fino ad avere il sopravvento.
Per questo il Tour fu vinto da un corridore la cui prova non può certamente essere citata come un modello di regolarità. La vittoria di Lapebie fu assicurata più che dalle gambe dell’atleta dalle braccia degli spettatori che, sulle salite più dure, gli garantirono una continua e comoda funicolare proprio nei momenti in cui stava per cedere definitivamente. Partiti i belgi per le intemperanze del pubblico e la grossolanità della giuria, il Giro era vinto. Lo stesso Vicini dovette adottare una tattica meno garibaldina e venire a certi accomodamenti. Comunque la stampa fu concorde nel riconoscere il valore del romagnolo che in un clima più sereno avrebbe forse potuto aggiudicarsi la corsa.
Articolato e ricco di dati tecnici il giudizio su Lapebie e Vicini de “La Gazzetta dello Sport”: “Lapebie ha vinto il Giro di Francia. Il Tour non è stato vinto dal miglior corridore in campo. Lapebie è semplicemente il profittatore della lotta strenua che fino dalla partenza si è impegnata tra l’italiano Bartali e il belga Maès. Bartali ha perduto la maglia gialla in un torrente. Maès ha abbandonato la maglia gialla sul letto di una camera d’albergo. Da questa perdita e da questo abbandono è uscito Lapebie. Sino alla vetta del Colle d’Allos nessuno aveva pensato a lui. Era per tutti, francesi compresi, un corridore tenace e orgoglioso, che aveva raccolto lo scettro troppo frettolosamente abbandonato da Speicher e da Archambaud. Lapebie è entrato in scena nella tappa di Digne. Non si sa bene come si sia arrampicato sui pendii asperrimi dell’Izoard, del Vars, dell’Allos: c’è chi afferma di avere visto una mano sporgersi dalla vettura di Avocat, giornalista francese, per afferrare la mano di Lapebie, a scopo di tiraggio illecito. Resta il fatto che Lapebie era estraneo alla lotta tra le vedette sino alla discesa dell’Allos. Lungo questa discesa ha raggiunto i corridori d’avanguardia, e nelle vicinanze di Digne li ha attaccati e distaccati. Al traguardo di Digne Lapebie è diventato l’avversario diretto di Vicini, maglia gialla platonica, e di Maès, maglia gialla regolamentare. Il fantomatico ritorno dell’atleta francese, clamoroso e inaspettato per tutti, ridiede ala e sprone agli sportivi francesi che già si erano rassegnati allo sconquasso della squadra nazionale. Per i francesi – folla e giornalisti – fu una puntura d’etere. Lapebie diventò l’idolo delle moltitudini, il salvatore di un compromesso prestigio atletico. Da quel momento Lapebie diventò il ‘Ruggero nazionale’. Donde le furiose spinte e i rifornimenti su per il Tourmalet e l’Aubisque, donde l’inadeguata penalizzazione del minuto e mezzo, donde il pronunciamento della stampa francese, donde la rivolta degli sportivi girondini, donde l’incapacità degli organizzatori di fronteggiarla, donde il ritiro della squadra belga. Da Parigi a Digne la corsa si è impostata nella sfida tra Bartali e Maès. Da Digne in poi la corsa si è risolta nella resurrezione e nella beatificazione di Lapebie. Al suo passivo militano le montagne sulle groppe delle quali, nonostante i disperati aiuti dei fanatici, non è riuscito che a racimolare una miseria di punti. Al suo attivo militano le doti di intelligenza e di slancio manifestate da Pau a Parigi. Trovato il terreno ondulato, Lapebie ha trovato la chiave di casa sua. Da Pau a Parigi non c’è niente da obiettare alla condotta sportiva del vincitore del Giro. Siamo i primi ad ammettere che Lapebie ha barato sulle montagne. Siamo i primi ad ammettere che, in ogni frangente della gara, da Pau a Parigi (tappa individuale a cronometro compresa), Lapebie è stato uno dei più vigili ed ardenti in lizza. La vittoria finale del francese ha nelle montagne la sua grande ombra, vasta come una nuvola di temporale. Ecco la debolezza intrinseca del Giro di Francia di quest’anno, agli effetti della probità e della regolarità tecnica del suo risultato finale.
Al secondo posto si è piazzato Mario Vicini. In partenza era un individuale qualsiasi, poco visto e poco considerato da tutti. Al Colle d’Allos era la rivelazione del Giro di Francia, l’erede della corona cui Bartali aveva dovuto amaramente rinunciare. A Digne era maglia gialla. Dopo Digne diventò la figura popolare più interessante della corsa. Bastano questi trapassi per fare di Vicini il vincitore morale del Giro? La nostra ammirazione per il corridore dal pelo fulvo non arriva sino a questo punto. In montagna Vicini ha demolito Lapebie. In pianura Lapebie ha imbrigliato Vicini. Lapebie aveva a propria disposizione una squadra, Vicini esclusivamente le proprie gambe. Questo va a grosso vantaggio del corridore italiano. Ma Vicini, oggi come oggi, non è il corridore completo. La sua forza è assoluta, la sua elasticità relativa. Gambe e braccia, volontà ed attitudine alla fatica, ne fanno, in montagna, un leone. In pianura la sua pedalata verticale – tutta espressa in battuta e vigoria di stantuffo dall’alto in basso – gli toglie la leggerezza, la speditezza, la spontaneità di ritmo e di andatura che plasmano lo stile dei passisti e dei velocisti. Forse è un corridore cui difetta ancora l’esperienza della pista. Questo atleta che in montagna – sparito Bartali – ha sconfitto tutto il campo ed ha inflitto mucchi di minuti a Lapebie, non è riuscito a battere il francese nella prova individuale a cronometro. Il dispendio delle pure forze atletiche è stato superiore in Vicini che in Lapebie, ma quest’ultimo ha ricuperato in scioltezza e in armonia di pedalata. Il più agile ha battuto il più robusto. Lapebie, per noi, è il vincitore del Giro di Francia in pianura, Vicini il vincitore del Giro di Francia in montagna. Queste osservazioni, di disinteressato e obiettivo valore sportivo, non tolgono un’oncia d’oro al merito di Vicini. Il suo Giro di Francia è stato un miracolo di ardore, di intraprendenza, di coraggio, di forza. Vicini, in molti episodi, ha rievocato la figura di Ottavio Bottecchia”.
A questo punto crediamo che sia veramente giunto il momento di porre la parola fine alle rocambolesche vicende della corsa francese e lo vogliamo fare con il commento di Colombo: “Il 31° Giro di Francia è passato alla storia. Più o meno… allegramente nei confronti dei suoi organizzatori, ma è passato. Lo ha vinto quello strano uomo di Lapebie. Può darsi che gli sportivi francesi, dopo avere inscenato la cagnara che provocò il ritiro dei belgi, si sentano ora orgogliosi del risultato. Tutto è possibile nella famiglia e nell’atmosfera del Tour. Se i francesi sono fieri del successo del loro… correttissimo, disciplinato, ‘mite asso’ Lapebie, vuoI dire che hanno la scorza dura. Dovrete convenire con noi nell’osservare che il 31° Giro di Francia è finito miseramente. Di bello sul suo sfondo non vi furono se non Gino Bartali, gli assi della squadra belga e parecchi isolati. Di meraviglioso non vi rimase, ad un certo punto, se non Mario Vicini. Tutto il resto nebbia. E parecchie brutture. Vicini è stato la rivelazione del Tour. È stato il più forte e il più sano concorrente. Non conosceva l’ambiente e non sapeva nulla del percorso. Non parlava che romagnolo. Non aveva compagni fedeli. Vicini è stato un magnifico combattente, un bellissimo atleta, un vero campione. Le imprese, delle quali l’atleta romagnolo della ‘Ganna’ si è reso protagonista, ne fanno un degno esponente del ciclismo italiano” (“Guerin sportivo”, 27 luglio 1937).